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Indice
I. Come andò
che Maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva
e rideva come un bambino.
II. Maestro Ciliegia
regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto, il quale lo prende per
fabbricarsi un burattino maraviglioso, che sappia ballare, tirar di
scherma e fare i salti mortali.
III. Geppetto, tornato
a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette il nome
di Pinocchio. Prime monellerie del burattino.
IV. La storia di
Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi cattivi hanno
a noja di sentirsi correggere da chi ne sa piú di loro.
V. Pinocchio ha fame
e cerca un uovo per farsi una frittata;ma sul piú bello, la frittata
gli vola via dalla finestra.
VI. Pinocchio si
addormenta coi piedi sul caldano, e la mattina dopo si sveglia coi piedi
tutti bruciati.
VII. Geppetto torna
a casa, e dà al burattino la colazione che il pover'uomo aveva portata
per sé.
VIII. Geppetto
rifà i piedi a Pinocchio, e vende la propria casacca per comprargli
l'Abbecedario.
IX. Pinocchio vende
l'Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini.
X. I burattini riconoscono
il loro fratello Pinocchio, e gli fanno una grandissima festa; ma sul
piú bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco, e Pinocchio corre il
pericolo di fare una brutta fine.
XI. Mangiafoco starnutisce
e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte il suo amico
Arlecchino.
XII. Il burattinaio
Mangiafoco regala cinque monete d'oro a Pinocchio perché le porti al
suo babbo Geppetto: e Pinocchio,invece, si lascia abbindolare dalla
Volpe e dal Gatto e se ne va con loro.
XIII. L'osteria
del "Gambero Rosso".
XIV. Pinocchio,
per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo-parlante, s'imbatte
negli assassini.
XV. Gli assassini
inseguono Pinocchio; e dopo averlo raggiunto, lo impiccano a un ramo
della Quercia grande.
XVI. La bella Bambina
dai capelli turchini fa raccogliere il burattino: lo mette a letto,
e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto.
XVII. Pinocchio
mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi: però quando vede i becchini
che vengono a portarlo via, allora si purga. Poi dice una bugia e per
gastigo gli cresce il naso.
XVIII. Pinocchio
ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete
nel Campo de' miracoli.
XIX. Pinocchio è
derubato delle sue monete d'oro, e per gastigo, si busca quattro mesi
di prigione.
XX. Liberato dalla
prigione, si avvia per tornare a casa della Fata; ma lungo la strada
trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola.
XXI. Pinocchio è
preso da un contadino, il quale lo costringe a far da can di guardia
a un pollajo.
XXII. Pinocchio
scuopre i ladri, e in ricompensa di essere stato fedele vien posto in
libertà.
XXIII. Pinocchio
piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini: poi trova
un Colombo, che lo porta sulla riva del mare, e lí si getta nell'acqua
per andare in aiuto del suo babbo Geppetto.
XXIV. Pinocchio
arriva all'isola delle "Api industriose" e ritrova la Fata.
XXV. Pinocchio promette
alla Fata di esser buono e di studiare, perché è stufo di fare il burattino
e vuol diventare un bravo ragazzo.
XXVI. Pinocchio
va co' suoi compagni di scuola in riva al mare, per vedere il terribile
Pesce-cane.
XXVII. Gran combattimento
fra Pinocchio e i suoi compagni: uno de' quali essendo rimasto ferito,
Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.
XXVIII. Pinocchio
corre pericolo di esser fritto in padella, come un pesce.
XXIX. Ritorna a
casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà piú
un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte
per festeggiare questo grande avvenimento.
XXX. Pinocchio,
invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo
per il "Paese dei balocchi".
XXXI. Dopo cinque
mesi di cuccagna, Pinocchio con sua gran maraviglia, sente spuntarsi
un bel pajo d'orecchie asinine, e diventa un ciuchino, con la coda e
tutto.
XXXII. A Pinocchio
gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa un ciuchino vero e comincia
a ragliare.
XXXIII. Diventato
un ciuchino vero, è portato a vendere, e lo compra il Direttore di una
compagnia di pagliacci, per insegnargli a ballare e a saltare i cerchi:ma
una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro, per far con la sua
pelle un tamburo.
XXXIV. Pinocchio,
gettato in mare, è mangiato dai pesci e ritorna ad essere un burattino
come prima: ma mentre nuota per salvarsi, è ingojato dal terribile Pesce-cane.
XXXV. Pinocchio
ritrova in corpo al Pesce-cane... chi ritrova? Leggete questo capitolo
e lo saprete.
XXXVI. Finalmente
Pinocchio cessa d'essere un burattino e diventa un ragazzo.
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I
Come
andò che Maestro Ciliegia, falegname, trovò un pezzo di legno, che piangeva
e rideva come un bambino.
- C'era una volta...
- Un re! - diranno subito i miei piccoli lettori.
- No, ragazzi, avete sbagliato. C'era una volta un pezzo di legno.
Non era un legno di lusso, ma un semplice pezzo da catasta, di quelli
che d'inverno si mettono nelle stufe e nei caminetti per accendere il
fuoco e per riscaldare le stanze.
Non so come andasse, ma il fatto gli è che un bel giorno questo pezzo
di legno capitò nella bottega di un vecchio falegname, il quale aveva
nome Mastr'Antonio, se non che tutti lo chiamavano maestro Ciliegia,
per via della punta del suo naso, che era sempre lustra e paonazza,
come una ciliegia matura.
Appena maestro Ciliegia ebbe visto quel pezzo di legno, si rallegrò
tutto; e dandosi una fregatina di mani per la contentezza, borbottò
a mezza voce:
- Questo legno è capitato a tempo; voglio servirmene per fare una gamba
di tavolino. -
Detto fatto, prese subito l'ascia arrotata per cominciare a levargli
la scorza e a digrossarlo; ma quando fu lí per lasciare andare la prima
asciata, rimase col braccio sospeso in aria, perché sentí una vocina
sottile sottile, che disse raccomandandosi:
- Non mi picchiar tanto forte! -
Figuratevi come rimase quel buon vecchio di maestro Ciliegia!
Girò gli occhi smarriti intorno alla stanza per vedere di dove mai poteva
essere uscita quella vocina, e non vide nessuno! Guardò sotto il banco,
e nessuno; guardò dentro un armadio che stava sempre chiuso, e nessuno;
guardò nel corbello dei trucioli e della segatura, e nessuno; aprí l'uscio
di bottega per dare un'occhiata anche sulla strada, e nessuno. O dunque?...
- Ho capito; - disse allora ridendo e grattandosi la parrucca - si vede
che quella vocina me la son figurata io. Rimettiamoci a lavorare. -
E ripresa l'ascia in mano, tirò giú un solennissimo colpo sul pezzo
di legno.
- Ohi! tu m'hai fatto male! - gridò rammaricandosi la solita vocina.
Questa volta maestro Ciliegia restò di stucco, cogli occhi fuori del
capo per la paura, colla bocca spalancata e colla lingua giú ciondoloni
fino al mento, come un mascherone da fontana.
Appena riebbe l'uso della parola, cominciò a dire tremando e balbettando
dallo spavento:
- Ma di dove sarà uscita questa vocina che ha detto ohi?... Eppure qui
non c'è anima viva. Che sia per caso questo pezzo di legno che abbia
imparato a piangere e a lamentarsi come un bambino? Io non lo posso
credere. Questo legno eccolo qui; è un pezzo di legno da caminetto,
come tutti gli altri, e a buttarlo sul fuoco, c'è da far bollire una
pentola di fagioli... O dunque? Che ci sia nascosto dentro qualcuno?
Se c'è nascosto qualcuno, tanto peggio per lui. Ora l'accomodo io! -
E cosí dicendo, agguantò con tutte e due le mani quel povero pezzo di
legno, e si pose a sbatacchiarlo senza carità contro le pareti della
stanza.
Poi si messe in ascolto, per sentire se c'era qualche vocina che si
lamentasse. Aspettò due minuti, e nulla; cinque minuti, e nulla; dieci
minuti, e nulla!
- Ho capito; - disse allora sforzandosi di ridere e arruffandosi la
parrucca - si vede che quella vocina che ha detto ohi, me la son figurata
io! Rimettiamoci a lavorare. -
E perché gli era entrata addosso una gran paura, si provò a canterellare
per farsi un po' di coraggio.
Intanto, posata da una parte l'ascia, prese in mano la pialla, per piallare
e tirare a pulimento il pezzo di legno; ma nel mentre che lo piallava
in su e in giú, sentí la solita vocina che gli disse ridendo:
- Smetti! tu mi fai il pizzicorino sul corpo! -
Questa volta il povero maestro Ciliegia cadde giú come fulminato. Quando
riaprí gli occhi, si trovò seduto per terra.
Il suo viso pareva trasfigurito, e perfino la punta del naso, di paonazza
come era quasi sempre, gli era diventata turchina dalla gran paura.
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II
Maestro
Ciliegia regala il pezzo di legno al suo amico Geppetto, il quale lo
prende per fabbricarsi un burattino maraviglioso, che sappia ballare,
tirar di scherma e fare i salti mortali.
In quel punto fu bussato alla
porta.
- Passate pure, - disse il falegname, senza aver la forza di rizzarsi
in piedi.
Allora entrò in bottega un vecchietto tutto arzillo, il quale aveva
nome Geppetto; ma i ragazzi del vicinato, quando lo volevano far montare
su tutte le furie, lo chiamavano col soprannome di Polendina, a motivo
della sua parrucca gialla, che somigliava moltissimo alla polendina
di granturco.
Geppetto era bizzosissimo. Guai a chiamarlo Polendina! Diventava subito
una bestia, e non c'era piú verso di tenerlo.
- Buon giorno, mastr'Antonio, - disse Geppetto. - Che cosa fate costí
per terra?
- Insegno l'abbaco alle formicole.
- Buon pro vi faccia.
- Chi vi ha portato da me, compar Geppetto?
- Le gambe. Sappiate, mastr'Antonio, che son venuto da voi, per chiedervi
un favore.
- Eccomi qui, pronto a servirvi, - replicò il falegname, rizzandosi
su i ginocchi.
- Stamani m'è piovuta nel cervello un'idea.
- Sentiamola.
- Ho pensato di fabbricarmi da me un bel burattino di legno: ma un burattino
maraviglioso, che sappia ballare, tirare di scherma e fare i salti mortali.
Con questo burattino voglio girare il mondo, per buscarmi un tozzo di
pane e un bicchier di vino: che ve ne pare?
- Bravo Polendina! - gridò la solita vocina, che non si capiva di dove
uscisse.
A sentirsi chiamar Polendina, compar Geppetto diventò rosso come un
peperone dalla bizza, e voltandosi verso il falegname, gli disse imbestialito:
- Perché mi offendete?
- Chi vi offende?
- Mi avete detto Polendina!...
- Non sono stato io.
- Sta' un po' a vedere che sarò stato io! Io dico che siete stato voi.
- No!
- Sí!
- No!
- Sí! -
E riscaldandosi sempre piú, vennero dalle parole ai fatti, e acciuffatisi
fra di loro, si graffiarono, si morsero e si sbertucciarono.
Finito il combattimento, mastr'Antonio si trovò fra le mani la parrucca
gialla di Geppetto, e Geppetto si accòrse di avere in bocca la parrucca
brizzolata del falegname.
- Rendimi la mia parrucca! - gridò mastr'Antonio.
- E tu rendimi la mia, e rifacciamo la pace. -
I due vecchietti, dopo aver ripreso ognuno di loro la propria parrucca,
si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni amici per tutta la
vita.
- Dunque, compar Geppetto, - disse il falegname in segno di pace fatta
- qual è il piacere che volete da me?
- Vorrei un po' di legno per fabbricare il mio burattino; me lo date?
-
Mastr'Antonio, tutto contento, andò subito a prendere sul banco quel
pezzo di legno che era stato cagione a lui di tante paure. Ma quando
fu lí per consegnarlo all'amico, il pezzo di legno dètte uno scossone
e sgusciandogli violentemente dalle mani, andò a battere con forza negli
stinchi impresciuttiti del povero Geppetto.
- Ah! gli è con questo bel garbo, mastr'Antonio, che voi regalate la
vostra roba? M'avete quasi azzoppito!...
- Vi giuro che non sono stato io!
- Allora sarò stato io!...
- La colpa è tutta di questo legno...
- Lo so che è del legno: ma siete voi che me l'avete tirato nelle gambe!
- Io non ve l'ho tirato!
- Bugiardo!
- Geppetto non mi offendete; se no vi chiamo Polendina!...
- Asino!
- Polendina!
- Somaro!
- Polendina!
- Brutto scimmiotto!
- Polendina! -
A sentirsi chiamar Polendina per la terza volta, Geppetto perse il lume
degli occhi, si avventò sul falegname, e lí se ne dettero un sacco e
una sporta.
A battaglia finita, mastr'Antonio si trovò due graffi di piú sul naso,
e quell'altro due bottoni di meno al giubbetto. Pareggiati in questo
modo i loro conti, si strinsero la mano e giurarono di rimanere buoni
amici per tutta la vita.
Intanto Geppetto prese con se il suo bravo pezzo di legno, e ringraziato
mastr'Antonio, se ne tornò zoppicando a casa.
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III
Geppetto,
tornato a casa, comincia subito a fabbricarsi il burattino e gli mette
il nome di Pinocchio. Prime monellerie del burattino.
La casa di Geppetto era una stanzina
terrena, che pigliava luce da un sottoscala. La mobilia non poteva essere
piú semplice: una seggiola cattiva, un letto poco buono e un tavolino
tutto rovinato. Nella parete di fondo si vedeva un caminetto col fuoco
acceso; ma il fuoco era dipinto, e accanto al fuoco c'era dipinta una
pentola che bolliva allegramente e mandava fuori una nuvola di fumo,
che pareva fumo davvero.
Appena entrato in casa, Geppetto prese subito gli arnesi e si pose a
intagliare e a fabbricare il suo burattino.
- Che nome gli metterò? - disse fra sé e sé. - Lo voglio chiamar Pinocchio.
Questo nome gli porterà fortuna. Ho conosciuto una famiglia intera di
Pinocchi: Pinocchio il padre, Pinocchia la madre e Pinocchi i ragazzi,
e tutti se la passavano bene. Il piú ricco di loro chiedeva l'elemosina.
-
Quando ebbe trovato il nome al suo burattino, allora cominciò a lavorare
a buono, e gli fece subito i capelli, poi la fronte, poi gli occhi.
Fatti gli occhi, figuratevi la sua maraviglia quando si accòrse che
gli occhi si movevano e che lo guardavano fisso fisso.
Geppetto, vedendosi guardare da quei due occhi di legno, se n'ebbe quasi
per male, e disse con accento risentito:
- Occhiacci di legno, perché mi guardate? -
Nessuno rispose.
Allora, dopo gli occhi, gli fece il naso; ma il naso, appena fatto,
cominciò a crescere: e cresci, cresci, cresci, diventò in pochi minuti
un nasone che non finiva mai.
Il povero Geppetto si affaticava a ritagliarlo; ma piú lo ritagliava
e lo scorciva, e piú quel naso impertinente diventava lungo.
Dopo il naso gli fece la bocca.
La bocca non era ancora finita di fare, che cominciò subito a ridere
e a canzonarlo.
- Smetti di ridere! - disse Geppetto impermalito; ma fu come dire al
muro.
- Smetti di ridere, ti ripeto! - urlò con voce minacciosa.
Allora la bocca smesse di ridere, ma cacciò fuori tutta la lingua.
Geppetto, per non guastare i fatti suoi, finse di non avvedersene, e
continuò a lavorare. Dopo la bocca, gli fece il mento, poi il collo,
poi le spalle, lo stomaco, le braccia e le mani.
Appena finite le mani, Geppetto sentí portarsi via la parrucca dal capo.
Si voltò in su e che cosa vide? Vide la sua parrucca gialla in mano
del burattino.
- Pinocchio!... rendimi subito la mia parrucca! -
E Pinocchio, invece di rendergli la parrucca, se la messe in capo per
sé, rimanendovi sotto mezzo affogato.
A quel garbo insolente e derisorio, Geppetto si fece tristo e melanconico,
come non era stato mai in vita sua: e voltandosi verso Pinocchio, gli
disse:
- Birba d'un figliuolo! Non sei ancora finito di fare, e già cominci
a mancar di rispetto a tuo padre! Male, ragazzo mio, male! -
E si rasciugò una lacrima.
Restavano sempre da fare le gambe e i piedi.
Quando Geppetto ebbe finito di fargli i piedi, sentí arrivarsi un calcio
sulla punta del naso.
- Me lo merito! - disse allora fra sé. - Dovevo pensarci prima! Oramai
è tardi! -
Poi prese il burattino sotto le braccia e lo posò in terra, sul pavimento
della stanza, per farlo camminare.
Pinocchio aveva le gambe aggranchite e non sapeva muoversi, e Geppetto
lo conduceva per la mano per insegnargli a mettere un passo dietro l'altro.
Quando le gambe gli si furono sgranchite, Pinocchio cominciò a camminare
da sé e a correre per la stanza; finché, infilata la porta di casa,
saltò nella strada e si dètte a scappare.
E il povero Geppetto a corrergli dietro senza poterlo raggiungere, perché
quel birichino di Pinocchio andava a salti come una lepre, e battendo
i suoi piedi di legno sul lastrico della strada, faceva un fracasso,
come venti paia di zoccoli da contadini.
- Piglialo! piglialo! - urlava Geppetto; ma la gente che era per la
via, vedendo questo burattino di legno, che correva come un barbero,
si fermava incantata a guardarlo, e rideva, rideva e rideva, da non
poterselo figurare.
Alla fine, e per buona fortuna, capitò un carabiniere il quale, sentendo
tutto quello schiamazzo, e credendo si trattasse di un puledro che avesse
levata la mano al padrone, si piantò coraggiosamente a gambe larghe
in mezzo alla strada, coll'animo risoluto di fermarlo e d'impedire il
caso di maggiori disgrazie.
Ma Pinocchio, quando si avvide da lontano del carabiniere, che barricava
tutta la strada, s'ingegnò di passargli, per sorpresa, framezzo alle
gambe, e invece fece fiasco.
Il carabiniere, senza punto smuoversi, lo acciuffò pulitamente per il
naso (era un nasone spropositato, che pareva fatto apposta per essere
acchiappato dai carabinieri), e lo riconsegnò nelle proprie mani di
Geppetto; il quale, a titolo di correzione, voleva dargli subito una
buona tiratina d'orecchi. Ma figuratevi come rimase quando, nel cercargli
gli orecchi, non gli riuscí di poterli trovare: e sapete perché? perché,
nella furia di scolpirlo, si era dimenticato di farglieli.
Allora lo prese per la collottola, e, mentre lo riconduceva indietro,
gli disse tentennando minacciosamente il capo:
- Andiamo subito a casa. Quando saremo a casa, non dubitare che faremo
i nostri conti! -
Pinocchio, a questa antifona, si buttò per terra, e non volle piú camminare.
Intanto i curiosi e i bighelloni principiavano a fermarsi lí dintorno
e a far capannello.
Chi ne diceva una, chi un'altra.
- Povero burattino! - dicevano alcuni - ha ragione a non voler tornare
a casa! Chi lo sa come lo picchierebbe quell'omaccio di Geppetto!...
-
E gli altri soggiungevano malignamente:
- Quel Geppetto pare un galantuomo! ma è un vero tiranno coi ragazzi!
Se gli lasciano quel povero burattino fra le mani, è capacissimo di
farlo a pezzi!... -
Insomma, tanto dissero e tanto fecero, che il carabiniere rimesse in
libertà Pinocchio, e condusse in prigione quel pover'uomo di Geppetto.
Il quale, non avendo parole lí per lí per difendersi, piangeva come
un vitellino, e nell'avviarsi verso il carcere, balbettava singhiozzando:
- Sciagurato figliuolo! E pensare che ho penato tanto a farlo un burattino
per bene! Ma mi sta il dovere! Dovevo pensarci prima!...
Quello che accadde dopo, è una storia cosí strana da non potersi quasi
credere, e ve la racconterò in quest'altri capitoli.
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IV
La
storia di Pinocchio col Grillo-parlante, dove si vede come i ragazzi
cattivi hanno a noja di sentirsi correggere da chi ne sa piú di loro.
Vi dirò dunque, ragazzi, che
mentre il povero Geppetto era condotto senza sua colpa in prigione,
quel monello di Pinocchio, rimasto libero dalle grinfie del carabiniere,
se la dava a gambe giú attraverso ai campi, per far piú presto a tornarsene
a casa; e nella gran furia del correre saltava greppi altissimi, siepi
di pruni e fossi pieni d'acqua, tale e quale come avrebbe potuto fare
un capretto o un leprottino inseguito dai cacciatori.
Giunto dinanzi a casa, trovò l'uscio di strada socchiuso. Lo spinse,
entrò dentro, e appena ebbe messo tanto di paletto, si gettò a sedere
per terra, lasciando andare un gran sospirone di contentezza.
Ma quella contentezza durò poco, perché sentí nella stanza qualcuno
che fece:
- Crí-crí-crí!
- Chi è che mi chiama? - disse Pinocchio tutto impaurito.
- Sono io! -
Pinocchio si voltò, e vide un grosso grillo che saliva lentamente su
su per il muro.
- Dimmi, Grillo, e tu chi sei?
- Io sono il Grillo-parlante, e abito in questa stanza da piú di cent'anni.
- Oggi però questa stanza è mia - disse il burattino - e se vuoi farmi
un vero piacere, vattene subito, senza nemmeno voltarti indietro.
- Io non me ne anderò di qui, - rispose il Grillo - se prima non ti
avrò detto una gran verità.
- Dimmela e spicciati.
- Guai a quei ragazzi che si ribellano ai loro genitori, e che abbandonano
capricciosamente la casa paterna. Non avranno mai bene in questo mondo;
e prima o poi dovranno pentirsene amaramente.
- Canta pure, Grillo mio, come ti pare e piace: ma io so che domani,
all'alba, voglio andarmene di qui, perché se rimango qui, avverrà a
me quel che avviene a tutti gli altri ragazzi, vale a dire mi manderanno
a scuola, e per amore o per forza mi toccherà a studiare; e io, a dirtela
in confidenza, di studiare non ne ho punto voglia, e mi diverto piú
a correre dietro alle farfalle e a salire su per gli alberi a prendere
gli uccellini di nido.
- Povero grullerello! Ma non sai che, facendo cosí, diventerai da grande
un bellissimo somaro, e che tutti si piglieranno gioco di te?
- Chetati, Grillaccio del mal'augurio! - gridò Pinocchio.
Ma il Grillo, che era paziente e filosofo, invece di aversi a male di
questa impertinenza, continuò con lo stesso tono di voce:
- E se non ti garba di andare a scuola, perché non impari almeno un
mestiere, tanto da guadagnarti onestamente un pezzo di pane?
- Vuoi che te lo dica? - replicò Pinocchio, che cominciava a perdere
la pazienza. - Fra i mestieri del mondo non ce n'è che uno solo che
veramente mi vada a genio.
- E questo mestiere sarebbe?
- Quello di mangiare, bere, dormire, divertirmi e fare dalla mattina
alla sera la vita del vagabondo.
- Per tua regola - disse il Grillo-parlante con la sua solita calma
- tutti quelli che fanno codesto mestiere, finiscono quasi sempre allo
spedale o in prigione.
- Bada, Grillaccio del mal'augurio!... se mi monta la bizza, guai a
te!...
- Povero Pinocchio! mi fai proprio compassione!...
- Perché ti faccio compassione?
- Perché sei un burattino e, quel che è peggio, perché hai la testa
di legno. -
A queste ultime parole, Pinocchio saltò su tutt'infuriato e preso di
sul banco un martello di legno, lo scagliò contro il Grillo-parlante.
Forse non credeva nemmeno di colpirlo; ma disgraziatamente lo colse
per l'appunto nel capo, tanto che il povero Grillo ebbe appena il fiato
di fare crí-crí-crí, e poi rimase lí stecchito e appiccicato alla parete.
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V
Pinocchio
ha fame e cerca un uovo per farsi una frittata; ma sul piú bello, la
frittata gli vola via dalla finestra.
Intanto cominciò a farsi notte,
e Pinocchio, ricordandosi che non aveva mangiato nulla, sentí un'uggiolina
allo stomaco, che somigliava moltissimo all'appetito.
Ma l'appetito nei ragazzi cammina presto, e di fatti, dopo pochi minuti,
l'appetito diventò fame, e la fame, dal vedere al non vedere, si convertí
in una fame da lupi, in una fame da tagliarsi col coltello.
Il povero Pinocchio corse subito al focolare, dove c'era una pentola
che bolliva, e fece l'atto di scoperchiarla, per vedere che cosa ci
fosse dentro: ma la pentola era dipinta sul muro. Immaginatevi come
restò. Il suo naso, che era già lungo, gli diventò piú lungo almeno
quattro dita.
Allora si dètte a correre per la stanza e a frugare per tutte le cassette
e per tutti i ripostigli in cerca di un po' di pane, magari un po' di
pan secco, un crosterello, un osso avanzato al cane, un po' di polenta
muffita, una lisca di pesce, un nocciolo di ciliegia, insomma qualche
cosa da masticare: ma non trovò nulla, il gran nulla, proprio nulla.
E intanto la fame cresceva, e cresceva sempre: e il povero Pinocchio
non aveva altro sollievo che quello di sbadigliare, e faceva degli sbadigli
cosí lunghi, che qualche volta la bocca gli arrivava fino agli orecchi.
E dopo avere sbadigliato, sputava, e sentiva che lo stomaco gli andava
via.
Allora piangendo e disperandosi, diceva:
- Il Grillo-parlante aveva ragione. Ho fatto male a rivoltarmi al mio
babbo e a fuggire di casa... Se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei
a morire di sbadigli! Oh! che brutta malattia che è la fame! -
Quand'ecco che gli parve di vedere nel monte della spazzatura qualche
cosa di tondo e di bianco, che somigliava tutto a un uovo di gallina.
Spiccare un salto e gettarvisi sopra, fu un punto solo. Era un uovo
davvero.
La gioia del burattino è impossibile descriverla: bisogna sapersela
figurare. Credendo quasi che fosse un sogno, si rigirava quest'uovo
fra le mani, e lo toccava e lo baciava, e baciandolo diceva:
- E ora come dovrò cuocerlo? Ne farò una frittata!... No, è meglio cuocerlo
nel piatto!... O non sarebbe piú saporito se lo friggessi in padella?
O se invece lo cuocessi a uso uovo a bere? No, la piú lesta di tutte
è di cuocerlo nel piatto o nel tegamino: ho troppo voglia di mangiarmelo!
-
Detto fatto, pose un tegamino sopra un caldano pieno di brace accesa:
messe nel tegamino, invece d'olio o di burro, un po' d'acqua: e quando
l'acqua principiò a fumare, tac!... spezzò il guscio dell'uovo, e fece
l'atto di scodellarvelo dentro.
Ma invece della chiara e del torlo scappò fuori un pulcino tutto allegro
e complimentoso, il quale facendo una bella riverenza disse:
- Mille grazie, signor Pinocchio, d'avermi risparmiata la fatica di
rompere il guscio! Arrivedella, stia bene e tanti saluti a casa! -
Ciò detto, distese le ali, e, infilata la finestra che era aperta, se
ne volò via a perdita d'occhio.
Il povero burattino rimase lí, come incantato, cogli occhi fissi, colla
bocca aperta e coi gusci dell'uovo in mano. Riavutosi, peraltro, dal
primo sbigottimento, cominciò a piangere, a strillare, a battere i piedi
in terra per la disperazione, e piangendo diceva:
- Eppure il Grillo-parlante aveva ragione! Se non fossi scappato di
casa e se il mio babbo fosse qui, ora non mi troverei a morire di fame!
Oh! che brutta malattia che è la fame!... -
E perché il corpo gli seguitava a brontolare piú che mai, e non sapeva
come fare a chetarlo, pensò di uscir di casa e di dare una scappata
al paesello vicino, nella speranza di trovare qualche persona caritatevole,
che gli facesse l'elemosina di un po' di pane.
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VI
Pinocchio
si addormenta coi piedi sul caldano, e la mattina dopo si sveglia coi
piedi tutti bruciati.
Per l'appunto era una nottataccia
d'inferno. Tonava forte forte, lampeggiava come se il cielo pigliasse
fuoco, e un ventaccio freddo e strapazzone, fischiando rabbiosamente
e sollevando un immenso nuvolo di polvere, faceva stridere e cigolare
tutti gli alberi della campagna.
Pinocchio aveva una gran paura dei tuoni e dei lampi: se non che la
fame era piú forte della paura: motivo per cui accostò l'uscio di casa,
e presa la carriera, in un centinaio di salti arrivò fino al paese,
colla lingua fuori e col fiato grosso, come un cane da caccia.
Ma trovò tutto buio e tutto deserto. Le botteghe erano chiuse; le porte
di casa chiuse; le finestre chiuse, e nella strada nemmeno un cane.
Pareva il paese dei morti.
Allora Pinocchio, preso dalla disperazione e dalla fame, si attaccò
al campanello d'una casa, e cominciò a sonare a distesa, dicendo dentro
di sé:
- Qualcuno si affaccerà. -
Difatti si affacciò un vecchino, col berretto da notte in capo, il quale
gridò tutto stizzito:
- Che cosa volete a quest'ora?
- Che mi fareste il piacere di darmi un po' di pane?
- Aspettami costí che torno subito, - rispose il vecchino, credendo
di avere da fare con qualcuno di quei ragazzacci rompicolli che si divertono
di notte a sonare i campanelli delle case, per molestare la gente per
bene, che se la dorme tranquillamente.
Dopo mezzo minuto la finestra si riaprí, e la voce del solito vecchino
gridò a Pinocchio:
- Fatti sotto e para il cappello. -
Pinocchio si levò subito il suo cappelluccio; ma mentre faceva l'atto
di pararlo, sentí pioversi addosso un'enorme catinellata d'acqua che
lo annaffiò tutto dalla testa ai piedi, come se fosse un vaso di giranio
appassito.
Tornò a casa bagnato come un pulcino e rifinito dalla stanchezza e dalla
fame: e perché non aveva piú forza da reggersi ritto, si pose a sedere,
appoggiando i piedi fradici e impillaccherati sopra un caldano pieno
di brace accesa.
E lí si addormentò; e nel dormire, i piedi che erano di legno gli presero
fuoco, e adagio adagio gli si carbonizzarono e diventarono cenere.
E Pinocchio seguitava a dormire e a russare, come se i suoi piedi fossero
quelli d'un altro. Finalmente sul far del giorno si svegliò, perché
qualcuno aveva bussato alla porta.
- Chi è? - domandò sbadigliando e stropicciandosi gli occhi.
- Sono io! - rispose una voce.
Quella voce era la voce di Geppetto.
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VII
Geppetto
torna a casa, e dà al burattino la colazione che il pover'uomo aveva
portata per sé.
Il povero Pinocchio, che aveva
sempre gli occhi fra il sonno, non s'era ancora avvisto dei piedi che
gli si erano tutti bruciati: per cui appena sentí la voce di suo padre,
schizzò giú dallo sgabello per correre a tirare il paletto; ma invece,
dopo due o tre traballoni, cadde di picchio tutto lungo disteso sul
pavimento.
E nel battere in terra fece lo stesso rumore, che avrebbe fatto un sacco
di mestoli, cascato da un quinto piano.
- Aprimi! - intanto gridava Geppetto dalla strada.
- Babbo mio, non posso - rispondeva il burattino piangendo e ruzzolandosi
per terra.
- Perché non puoi?
- Perché mi hanno mangiato i piedi.
- E chi te li ha mangiati?
- Il gatto - disse Pinocchio, vedendo il gatto che colle zampine davanti
si divertiva a far ballare alcuni trucioli di legno.
- Aprimi, ti dico! - ripeté Geppetto - se no, quando vengo in casa,
il gatto te lo do io!
- Non posso star ritto, credetelo. Oh! povero me! povero me, che mi
toccherà a camminare coi ginocchi per tutta la vita!... -
Geppetto, credendo che tutti questi piagnistei fossero un'altra monelleria
del burattino, pensò bene di farla finita, e arrampicatosi su per il
muro, entrò in casa dalla finestra.
Da principio voleva dire e voleva fare; ma poi, quando vide il suo Pinocchio
sdraiato in terra e rimasto senza piedi davvero, allora sentí intenerirsi;
e presolo subito in collo, si dètte a baciarlo e a fargli mille carezze
e mille moine, e, coi luccioloni che gli cascavano giú per le gote,
gli disse singhiozzando:
- Pinocchiuccio mio! Com'è che ti sei bruciato i piedi?
- Non lo so, babbo, ma credetelo che è stata una nottata d'inferno e
me ne ricorderò fin che campo. Tonava, balenava e io avevo una gran
fame, e allora il Grillo-parlante mi disse: "Ti sta bene: sei stato
cattivo, e te lo meriti" e io gli dissi: "Bada, Grillo!..."
e lui mi disse: "Tu sei un burattino e hai la testa di legno"
e io gli tirai un manico di martello, e lui morí, ma la colpa fu sua,
perché io non volevo ammazzarlo, prova ne sia che messi un tegamino
sulla brace accesa del caldano, ma il pulcino scappò fuori e disse:
"Arrivedella... e tanti saluti a casa". E la fame cresceva
sempre, motivo per cui quel vecchino col berretto da notte, affacciandosi
alla finestra mi disse: "Fatti sotto e para il cappello" e
io con quella catinellata d'acqua sul capo, perché il chiedere un po'
di pane non è vergogna, non è vero? me ne tornai subito a casa, e perché
avevo sempre una gran fame, messi i piedi sul caldano per rasciugarmi,
e voi siete tornato, e me li sono trovati bruciati, e intanto la fame
l'ho sempre e i piedi non li ho piú! ih!... ih!... ih!... ih!... -
E il povero Pinocchio cominciò a piangere e a berciare cosí forte, che
lo sentivano da cinque chilometri lontano.
Geppetto, che di tutto quel discorso arruffato aveva capito una sola
cosa, cioè che il burattino sentiva morirsi dalla gran fame, tirò fuori
di tasca tre pere, e porgendogliele, disse:
- Queste tre pere erano la mia colazione: ma io te le do volentieri.
Mangiale, e buon pro ti faccia.
- Se volete che le mangi, fatemi il piacere di sbucciarle.
- Sbucciarle? - replicò Geppetto meravigliato. - Non avrei mai creduto,
ragazzo mio, che tu fossi cosí boccuccia e cosí schizzinoso di palato.
Male! In questo mondo, fin da bambini, bisogna avvezzarsi abboccati
e a saper mangiar di tutto, perché non si sa mai quel che ci può capitare.
I casi son tanti!...
- Voi direte bene - soggiunse Pinocchio - ma io non mangerò mai una
frutta, che non sia sbucciata. Le bucce non le posso soffrire. -
E quel buon uomo di Geppetto, cavato fuori un coltellino, e armatosi
di santa pazienza, sbucciò le tre pere, e pose tutte le bucce sopra
un angolo della tavola.
Quando Pinocchio in due bocconi ebbe mangiata la prima pera, fece l'atto
di buttar via il torsolo: ma Geppetto gli trattenne il braccio, dicendogli:
- Non lo buttar via: tutto in questo mondo può far comodo.
- Ma io il torsolo non lo mangio davvero!... - gridò il burattino, rivoltandosi
come una vipera.
- Chi lo sa! I casi son tanti!... - ripeté Geppetto, senza riscaldarsi.
Fatto sta che i tre torsoli, invece di esser gettati fuori dalla finestra,
vennero posati sull'angolo della tavola in compagnia delle bucce.
Mangiate o, per dir meglio, divorate le tre pere, Pinocchio fece un
lunghissimo sbadiglio e disse piagnucolando:
- Ho dell'altra fame!
- Ma io, ragazzo mio, non ho piú nulla da darti.
- Proprio nulla, nulla?
- Ci avrei soltanto queste bucce e questi torsoli di pera.
- Pazienza! - disse Pinocchio, - se non c'è altro, mangerò una buccia.
-
E cominciò a masticare. Da principio storse un po' la bocca: ma poi
una dietro l'altra, spolverò in un soffio tutte le bucce: e dopo le
bucce anche i torsoli, e quand'ebbe finito di mangiare ogni cosa, si
batté tutto contento le mani sul corpo, e disse gongolando:
- Ora sí che sto bene!
- Vedi dunque - osservò Geppetto - che avevo ragione io quando ti dicevo
che non bisogna avvezzarsi né troppo sofistici né troppo delicati di
palato. Caro mio, non si sa mai quel che ci può capitare in questo mondo.
I casi son tanti!!... -
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VIII
Geppetto
rifà i piedi a Pinocchio, e vende la propria casacca per comprargli
l'Abbecedario.
Il burattino, appena che si fu
levata la fame, cominciò subito a bofonchiare e a piangere, perché voleva
un paio di piedi nuovi.
Ma Geppetto, per punirlo della monelleria fatta, lo lasciò piangere
e disperarsi per una mezza giornata: poi gli disse:
- E perché dovrei rifarti i piedi? Forse per vederti scappar di nuovo
da casa tua?
- Vi prometto - disse il burattino singhiozzando - che da oggi in poi
sarò buono...
- Tutti i ragazzi - replicò Geppetto - quando vogliono ottenere qualcosa,
dicono cosí.
- Vi prometto che anderò a scuola, studierò e mi farò onore...
- Tutti i ragazzi, quando vogliono ottenere qualcosa, ripetono la medesima
storia.
- Ma io non sono come gli altri ragazzi! Io sono piú buono di tutti,
e dico sempre la verità. Vi prometto, babbo, che imparerò un'arte, e
che sarò la consolazione e il bastone della vostra vecchiaia. -
Geppetto che, sebbene facesse il viso di tiranno, aveva gli occhi pieni
di pianto e il cuore grosso dalla passione nel vedere il suo povero
Pinocchio in quello stato compassionevole, non rispose altre parole:
ma, presi in mano gli arnesi del mestiere e due pezzetti di legno stagionato,
si pose a lavorare di grandissimo impegno.
E in meno d'un'ora, i piedi erano bell'e fatti: due piedini svelti,
asciutti e nervosi, come se fossero modellati da un artista di genio.
Allora Geppetto disse al burattino:
- Chiudi gli occhi e dormi! -
E Pinocchio chiuse gli occhi e fece finta di dormire. E nel tempo che
si fingeva addormentato, Geppetto con un po' di colla sciolta in un
guscio d'uovo gli appiccicò i due piedi al loro posto, e glieli appiccicò
cosí bene, che non si vedeva nemmeno il segno dell'attaccatura.
Appena il burattino si accòrse di avere i piedi, saltò giú dalla tavola
dove stava disteso, e principiò a fare mille sgambetti e mille capriòle,
come se fosse ammattito dalla gran contentezza.
- Per ricompensarvi di quanto avete fatto per me - disse Pinocchio al
suo babbo - voglio subito andare a scuola.
- Bravo ragazzo.
- Ma per andare a scuola ho bisogno d'un po' di vestito. -
Geppetto, che era povero e non aveva in tasca nemmeno un centesimo,
gli fece allora un vestituccio di carta fiorita, un paio di scarpe di
scorza d'albero e un berrettino di midolla di pane.
Pinocchio corse subito a specchiarsi in una catinella piena d'acqua
e rimase cosí contento di sé, che disse pavoneggiandosi:
- Paio proprio un signore!
- Davvero, - replicò Geppetto - perché, tienlo a mente, non è il vestito
bello che fa il signore, ma è piuttosto il vestito pulito.
- A proposito, - soggiunse il burattino - per andare alla scuola mi
manca sempre qualcosa: anzi mi manca il piú e il meglio.
- Cioè?
- Mi manca l'Abbecedario.
- Hai ragione: ma come si fa per averlo?
- È facilissimo: si va da un libraio e si compra.
- E i quattrini?
- Io non ce l'ho.
- Nemmeno io - soggiunse il buon vecchio, facendosi tristo.
E Pinocchio, sebbene fosse un ragazzo allegrissimo, si fece tristo anche
lui: perché la miseria, quando è miseria davvero, la intendono tutti:
anche i ragazzi.
- Pazienza! - gridò Geppetto tutt'a un tratto rizzandosi in piedi; e
infilatasi la vecchia casacca di frustagno, tutta toppe e rimendi, uscí
correndo di casa.
Dopo poco tornò: e quando tornò, aveva in mano l'Abbecedario per il
figliuolo, ma la casacca non l'aveva piú. Il pover'uomo era in maniche
di camicia, e fuori nevicava.
- E la casacca, babbo?
- L'ho venduta.
- Perché l'avete venduta?
- Perché mi faceva caldo. -
Pinocchio capí questa risposta a volo, e non potendo frenare l'impeto
del suo buon cuore, saltò al collo di Geppetto e cominciò a baciarlo
per tutto il viso.
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IX
Pinocchio
vende l'Abbecedario per andare a vedere il teatrino dei burattini.
Smesso che fu di nevicare, Pinocchio,
col suo bravo Abbecedario nuovo sotto il braccio, prese la strada che
menava alla scuola: e strada facendo, fantasticava nel suo cervellino
mille ragionamenti e mille castelli in aria uno piú bello dell'altro.
E discorrendo da sé solo, diceva:
- Oggi, alla scuola, voglio subito imparare a leggere: domani poi imparerò
a scrivere, e domani l'altro imparerò a fare i numeri. Poi, colla mia
abilità, guadagnerò molti quattrini e coi primi quattrini che mi verranno
in tasca, voglio subito fare al mio babbo una bella casacca di panno.
Ma che dico di panno? Gliela voglio fare tutta d'argento e d'oro, e
coi bottoni di brillanti. E quel pover'uomo se la merita davvero: perché,
insomma, per comprarmi i libri e per farmi istruire, è rimasto in maniche
di camicia... a questi freddi! Non ci sono che i babbi che sieno capaci
di certi sacrifizi!... -
Mentre tutto commosso diceva cosí, gli parve di sentire in lontananza
una musica di pifferi e di colpi di gran cassa: pí-pí-pí, pí-pí-pí,
zum, zum, zum, zum.
Si fermò e stette in ascolto. Quei suoni venivano di fondo a una lunghissima
strada traversa, che conduceva a un piccolo paesetto fabbricato sulla
spiaggia del mare.
- Che cosa sia questa musica? Peccato che io debba andare a scuola,
se no... -
E rimase lí perplesso. A ogni modo, bisognava prendere una risoluzione:
o a scuola, o a sentire i pifferi.
- Oggi anderò a sentire i pifferi, e domani a scuola: per andare a scuola
c'è sempre tempo - disse finalmente quel monello, facendo una spallucciata.
Detto fatto, infilò giú per la strada traversa e cominciò a correre
a gambe. Piú correva e piú sentiva distinto il suono dei pifferi e dei
tonfi della gran-cassa: pí-pí-pí, pí-pí-pí, pí-pí-pí, zum, zum, zum,
zum.
Quand'ecco che si trovò in mezzo a una piazza tutta piena di gente,
la quale si affollava intorno a un gran baraccone di legno e di tela
dipinta di mille colori.
- Che cos'è quel baraccone? - domandò Pinocchio, voltandosi a un ragazzetto
che era lí del paese.
- Leggi il cartello, che c'è scritto, e lo saprai.
- Lo leggerei volentieri, ma per l'appunto oggi non so leggere.
- Bravo bue! Allora te lo leggerò io. Sappi dunque che in quel cartello
a lettere rosse come il fuoco, c'è scritto: GRAN TEATRO DEI BURATTINI...
- È molto che è incominciata la commedia?
- Comincia ora.
- E quanto si spende per entrare?
- Quattro soldi. -
Pinocchio, che aveva addosso la febbre della curiosità, perse ogni ritegno
e disse, senza vergognarsi, al ragazzetto col quale parlava:
- Mi daresti quattro soldi fino a domani?
- Te li darei volentieri - gli rispose l'altro canzonandolo - ma oggi
per l'appunto non te li posso dare.
- Per quattro soldi, ti vendo la mia giacchetta - gli disse allora il
burattino.
- Che vuoi che mi faccia di una giacchetta di carta fiorita? Se ci piove
su, non c'è piú verso di cavarsela da dosso.
- Vuoi comprare le mie scarpe?
- Sono buone per accendere il fuoco.
- Quanto mi dai del berretto?
- Bell'acquisto davvero! Un berretto di midolla di pane! C'è il caso
che i topi me lo vengano a mangiare in capo! -
Pinocchio era sulle spine. Stava lí lí per fare un'ultima offerta: ma
non aveva coraggio: esitava, tentennava, pativa. Alla fine disse:
- Vuoi darmi quattro soldi di quest'Abbecedario nuovo?
- Io sono un ragazzo, e non compro nulla dai ragazzi - gli rispose il
suo piccolo interlocutore, che aveva piú giudizio di lui.
- Per quattro soldi l'Abbecedario lo prendo io - gridò un rivenditore
di panni usati, che s'era trovato presente alla conversazione.
E il libro fu venduto lí su due piedi. E pensare che quel pover'uomo
di Geppetto era rimasto a casa, a tremare dal freddo in maniche di camicia,
per comprare l'Abbecedario al figliuolo!
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X
I
burattini riconoscono il loro fratello Pinocchio, e gli fanno
una grandissima festa; ma sul piú bello, esce fuori il burattinaio Mangiafoco,
e Pinocchio corre il pericolo di fare una brutta fine.
Quando Pinocchio entrò nel teatrino
delle marionette, accadde un fatto che destò una mezza rivoluzione.
Bisogna sapere che il sipario era tirato su e la commedia era già incominciata.
Sulla scena si vedevano Arlecchino e Pulcinella, che bisticciavano fra
di loro e, secondo il solito, minacciavano da un momento all'altro di
scambiarsi un carico di schiaffi e di bastonate.
La platea, tutta attenta, si mandava a male dalle grandi risate, nel
sentire il battibecco di quei due burattini, che gestivano e si trattavano
d'ogni vitupero con tanta verità, come se fossero proprio due animali
ragionevoli e due persone di questo mondo.
Quando all'improvviso, che è che non è, Arlecchino smette di recitare,
e voltandosi verso il pubblico e accennando colla mano qualcuno in fondo
alla platea, comincia a urlare in tono drammatico:
- Numi del firmamento! sogno o son desto? Eppure quello laggiú è Pinocchio!...
- È Pinocchio davvero! - grida Pulcinella.
- È proprio lui! - strilla la signora Rosaura, facendo capolino di fondo
alla scena.
- È Pinocchio! è Pinocchio! - urlano in coro tutti i burattini, uscendo
a salti fuori dalle quinte. - È Pinocchio! È il nostro fratello Pinocchio!
Evviva Pinocchio!...
- Pinocchio, vieni quassú da me! - grida Arlecchino - vieni a gettarti
fra le braccia dei tuoi fratelli di legno! -
A questo affettuoso invito, Pinocchio spicca un salto, e di fondo alla
platea va nei posti distinti; poi con un altro salto, dai posti distinti
monta sulla testa del direttore d'orchestra, e di lí schizza sul palcoscenico.
È impossibile figurarsi gli abbracciamenti, gli strizzoni di collo,
i pizzicotti dell'amicizia e le zuccate della vera e sincera fratellanza,
che Pinocchio ricevé in mezzo a tanto arruffío dagli attori e dalle
attrici di quella compagnia drammatico-vegetale.
Questo spettacolo era commovente, non c'è che dire: ma il pubblico della
platea, vedendo che la commedia non andava piú avanti, s'impazientí
e prese a gridare:
- Vogliamo la commedia, vogliamo la commedia! -
Tutto fiato buttato via, perché i burattini, invece di continuare la
recita, raddoppiarono il chiasso e le grida, e, postosi Pinocchio sulle
spalle, se lo portarono in trionfo davanti ai lumi della ribalta.
Allora uscí fuori il burattinaio, un omone cosí brutto, che metteva
paura soltanto a guardarlo. Aveva una barbaccia nera come uno scarabocchio
d'inchiostro, e tanto lunga che gli scendeva dal mento fino a terra:
basta dire che, quando camminava, se la pestava coi piedi. La sua bocca
era larga come un forno, i suoi occhi parevano due lanterne di vetro
rosso, col lume acceso di dietro; e con le mani schioccava una grossa
frusta, fatta di serpenti e di code di volpe attorcigliate insieme.
All'apparizione inaspettata del burattinaio, ammutolirono tutti: nessuno
fiatò piú. Si sarebbe sentito volare una mosca. Quei poveri burattini,
maschi e femmine, tremavano come tante foglie.
- Perché sei venuto a mettere lo scompiglio nel mio teatro? - domandò
il burattinaio a Pinocchio, con un vocione d'Orco gravemente infreddato
di testa.
- La creda, illustrissimo, che la colpa non è stata mia!...
- Basta cosí! Stasera faremo i nostri conti. -
Difatti, finita la recita della commedia, il burattinaio andò in cucina,
dov'egli s'era preparato per cena un bel montone, che girava lentamente
infilato nello spiede. E perché gli mancavano le legna per finirlo di
cuocere e di rosolare, chiamò Arlecchino e Pulcinella e disse loro:
- Portatemi di qua quel burattino, che troverete attaccato al chiodo.
Mi pare un burattino fatto di un legname molto asciutto, e sono sicuro
che, a buttarlo sul fuoco, mi darà una bellissima fiammata all'arrosto.
-
Arlecchino e Pulcinella da principio esitarono; ma impauriti da un'occhiataccia
del loro padrone, obbedirono: e dopo poco tornarono in cucina, portando
sulle braccia il povero Pinocchio, il quale, divincolandosi come un'anguilla
fuori dell'acqua, strillava disperatamente:
- Babbo mio, salvatemi! Non voglio morire, no, non voglio morire!...
-
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XI
Mangiafoco
starnutisce e perdona a Pinocchio, il quale poi difende dalla morte
il suo amico Arlecchino.
Il burattinaio Mangiafoco (ché
questo era il suo nome) pareva un uomo spaventoso, non dico di no, specie
con quella sua barbaccia nera che, a uso grembiale, gli copriva tutto
il petto e tutte le gambe; ma nel fondo poi non era un cattiv'uomo.
Prova ne sia che quando vide portarsi davanti quel povero Pinocchio,
che si dibatteva per ogni verso, urlando "Non voglio morire, non
voglio morire!", principiò subito a commuoversi e a impietosirsi;
e dopo aver resistito un bel pezzo, alla fine non ne poté piú, e lasciò
andare un sonorissimo starnuto.
A quello starnuto, Arlecchino, che fin allora era stato afflitto e ripiegato
come un salcio piangente, si fece tutto allegro in viso e chinatosi
verso Pinocchio, gli bisbigliò sottovoce:
- Buone nuove, fratello! Il burattinaio ha starnutito, e questo è segno
che s'è mosso a compassione per te, e oramai sei salvo. -
Perché bisogna sapere che, mentre tutti gli uomini, quando si sentono
impietositi per qualcuno, o piangono, o per lo meno fanno finta di rasciugarsi
gli occhi, Mangiafoco, invece, ogni volta che s'inteneriva davvero aveva
il vizio di starnutire. Era un modo come un altro, per dare a conoscere
agli altri la sensibilità del suo cuore.
Dopo avere starnutito, il burattinaio, seguitando a fare il burbero,
gridò a Pinocchio:
- Finiscila di piangere! I tuoi lamenti mi hanno messo un'uggiolina
qui in fondo allo stomaco... sento uno spasimo, che quasi quasi... Etcí!
Etcí! - e fece altri due starnuti.
- Felicità! - disse Pinocchio.
- Grazie. E il tuo babbo e la tua mamma sono sempre vivi? - gli domandò
Mangiafoco.
- Il babbo, sí: la mamma non l'ho mai conosciuta.
- Chi lo sa che dispiacere sarebbe per il tuo vecchio padre, se ora
ti facessi gettare fra que' carboni ardenti! Povero vecchio! lo compatisco!...
Etcí, etcí, etcí - e fece altri tre starnuti.
- Felicità! - disse Pinocchio.
- Grazie! Del resto bisogna compatire anche me, perché, come vedi, non
ho piú legna per finire di cuocere quel montone arrosto, e tu, dico
la verità, in questo caso mi avresti fatto un gran comodo! Ma ormai
mi sono impietosito e ci vuol pazienza. Invece di te, metterò a bruciare
sotto lo spiede qualche burattino della mia Compagnia. Olà, giandarmi!
-
A questo comando comparvero subito due giandarmi di legno, lunghi lunghi,
secchi secchi, col cappello a lucerna in testa e colla sciabola sfoderata
in mano.
Allora il burattinaio disse loro con voce rantolosa:
- Pigliatemi lí quell'Arlecchino, legatelo ben bene, e poi gettatelo
a bruciare sul fuoco. Io voglio che il mio montone sia arrostito bene!
-
Figuratevi il povero Arlecchino! Fu tanto il suo spavento, che le gambe
gli si ripiegarono e cadde bocconi per terra.
Pinocchio, alla vista di quello spettacolo straziante, andò a gettarsi
ai piedi del burattinaio, e piangendo dirottamente e bagnandogli di
lacrime tutti i peli della lunghissima barba, cominciò a dire con voce
supplichevole:
- Pietà, signor Mangiafoco!...
- Qui non ci son signori! - replicò duramente il burattinaio.
- Pietà, signor Cavaliere!...
- Qui non ci sono cavalieri!
- Pietà, signor Commendatore!...
- Qui non ci sono commendatori!
- Pietà, Eccellenza!... -
A sentirsi chiamare Eccellenza, il burattinaio fece subito il bocchino
tondo, e diventato tutt'a un tratto piú umano e piú trattabile, disse
a Pinocchio:
- Ebbene, che cosa vuoi da me?
- Vi domando grazia per il povero Arlecchino!...
- Qui non c'è grazia che tenga. Se ho risparmiato te, bisogna che faccia
mettere sul fuoco lui, perché io voglio che il mio montone sia arrostito
bene.
- In questo caso - gridò fieramente Pinocchio, rizzandosi e gettando
via il suo berretto di midolla di pane - in questo caso conosco qual
è il mio dovere. Avanti, signori giandarmi! Legatemi e gettatemi là
fra quelle fiamme. No, non è giusta che il povero Arlecchino, il vero
amico mio, debba morire per me! -
Queste parole, pronunziate con voce alta e con accento eroico, fecero
piangere tutti i burattini che erano presenti a quella scena. Gli stessi
giandarmi, sebbene fossero di legno, piangevano come due agnellini di
latte.
Mangiafoco, sul principio, rimase duro e immobile come un pezzo di ghiaccio:
ma poi, adagio adagio, cominciò anche lui a commuoversi e a starnutire.
E fatti quattro o cinque starnuti, aprí affettuosamente le braccia e
disse a Pinocchio:
- Tu sei un gran bravo ragazzo! Vieni qua da me e dammi un bacio. -
Pinocchio corse subito, e arrampicandosi come uno scoiattolo su per
la barba del burattinaio, andò a posargli un bellissimo bacio sulla
punta del naso.
- Dunque la grazia è fatta? - domandò il povero Arlecchino, con un fil
di voce che si sentiva appena.
- La grazia è fatta! - rispose Mangiafoco: poi soggiunse sospirando
e tentennando il capo:
- Pazienza! Per questa sera mi rassegnerò a mangiare il montone mezzo
crudo: ma un'altra volta, guai a chi toccherà!... -
Alla notizia della grazia ottenuta, i burattini corsero tutti sul palcoscenico
e, accesi i lumi e i lampadari come in serata di gala, cominciarono
a saltare e a ballare. Era l'alba e ballavano sempre.
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XII
Il
burattinaio Mangiafoco regala cinque monete d'oro a Pinocchio perché
le porti al suo babbo Geppetto: e Pinocchio, invece, si lascia abbindolare
dalla Volpe e dal Gatto e se ne va con loro.
Il giorno dipoi Mangiafoco chiamò
in disparte Pinocchio e gli domandò:
- Come si chiama tuo padre?
- Geppetto.
- E che mestiere fa?
- Il povero.
- Guadagna molto?
- Guadagna tanto quanto ci vuole per non aver mai un centesimo in tasca.
Si figuri che per comprarmi l'Abbecedario della scuola dové vendere
l'unica casacca che aveva addosso: una casacca che, fra toppe e rimendi,
era tutta una piaga.
- Povero diavolo! Mi fa quasi compassione. Ecco qui cinque monete d'oro.
Va' subito a portargliele e salutalo tanto da parte mia. -
Pinocchio, com'è facile immaginarselo, ringraziò mille volte il burattinaio:
abbracciò, a uno a uno, tutti i burattini della compagnia, anche i giandarmi;
e fuori di sé dalla contentezza, si mise in viaggio per ritornarsene
a casa sua.
Ma non aveva fatto ancora mezzo chilometro, che incontrò per la strada
una Volpe zoppa da un piede e un Gatto cieco da tutt'e due gli occhi
che se ne andavano là là, aiutandosi fra di loro, da buoni compagni
di sventura. La Volpe, che era zoppa, camminava appoggiandosi al Gatto:
e il Gatto, che era cieco, si lasciava guidare dalla Volpe.
- Buon giorno, Pinocchio - gli disse la Volpe, salutandolo garbatamente.
- Com'è che sai il mio nome? - domandò il burattino.
- Conosco bene il tuo babbo.
- Dove l'hai veduto?
- L'ho veduto ieri sulla porta di casa sua.
- E che cosa faceva?
- Era in maniche di camicia e tremava dal freddo.
- Povero babbo! Ma, se Dio vuole, da oggi in poi non tremerà piú!...
- Perché?
- Perché io sono diventato un gran signore.
- Un gran signore tu? - disse la Volpe, e cominciò a ridere di un riso
sguaiato e canzonatore: e il Gatto rideva anche lui, ma per non darlo
a vedere, si pettinava i baffi colle zampe davanti.
- C'è poco da ridere - gridò Pinocchio impermalito. - Mi dispiace davvero
di farvi venire l'acquolina in bocca, ma queste qui, se ve ne intendete,
sono cinque bellissime monete d'oro. -
E tirò fuori le monete avute in regalo da Mangiafoco.
Al simpatico suono di quelle monete, la Volpe per un moto involontario
allungò la gamba che pareva rattrappita, e il Gatto spalancò tutt'e
due gli occhi che parvero due lanterne verdi: ma poi li richiuse subito,
tant'è vero che Pinocchio non si accòrse di nulla.
- E ora - gli domandò la Volpe - che cosa vuoi farne di codeste monete?
- Prima di tutto - rispose il burattino - voglio comprare per il mio
babbo una bella casacca nuova, tutta d'oro e d'argento e coi bottoni
di brillanti: e poi voglio comprare un Abbecedario per me.
- Per te?
- Davvero: perché voglio andare a scuola e mettermi a studiare a buono.
- Guarda me! - disse la Volpe. - Per la passione sciocca di studiare
ho perduto una gamba.
- Guarda me! - disse il Gatto. - Per la passione sciocca di studiare
ho perduto la vista di tutti e due gli occhi. -
In quel mentre un Merlo bianco, che se ne stava appollaiato sulla siepe
della strada, fece il suo solito verso e disse:
- Pinocchio, non dar retta ai consigli dei cattivi compagni: se no,
te ne pentirai! -
Povero Merlo, non l'avesse mai detto! Il Gatto, spiccando un gran salto,
gli si avventò addosso, e senza dargli nemmeno il tempo di dire ohi,
se lo mangiò in un boccone, con le penne e tutto.
Mangiato che l'ebbe e ripulitosi la bocca, chiuse gli occhi daccapo,
e ricominciò a fare il cieco come prima.
- Povero Merlo! - disse Pinocchio al Gatto - perché l'hai trattato cosí
male?
- Ho fatto per dargli una lezione. Cosí un'altra volta imparerà a non
metter bocca nei discorsi degli altri. -
Erano giunti piú che a mezza strada quando la Volpe, fermandosi di punto
in bianco, disse al burattino:
- Vuoi raddoppiare le tue monete d'oro?
- Cioè?
- Vuoi tu, di cinque miserabili zecchini, farne cento, mille, duemila?
- Magari! e la maniera?
- La maniera è facilissima. Invece di tornartene a casa tua, dovresti
venir con noi.
- E dove mi volete condurre?
- Nel paese dei Barbagianni. -
Pinocchio ci pensò un poco, e poi disse risolutamente:
- No, non ci voglio venire. Oramai sono vicino a casa, e voglio andarmene
a casa, dove c'è il mio babbo che m'aspetta. Chi lo sa, povero vecchio,
quanto ha sospirato ieri, a non vedermi tornare. Pur troppo io sono
stato un figliolo cattivo, e il Grillo-parlante aveva ragione quando
diceva: "i ragazzi disobbedienti non possono aver bene in questo
mondo". E io l'ho provato a mie spese, perché mi sono capitate
dimolte disgrazie, e anche ieri sera in casa di Mangiafoco, ho corso
pericolo... Brrr! mi viene i bordoni soltanto a pensarci!
- Dunque - disse la Volpe - vuoi proprio andare a casa tua? Allora va'
pure, e tanto peggio per te.
- Tanto peggio per te! - ripeté il Gatto.
- Pensaci bene, Pinocchio, perché tu dai un calcio alla fortuna.
- Alla fortuna! - ripeté il Gatto.
- I tuoi cinque zecchini, dall'oggi al domani sarebbero diventati duemila.
- Duemila! - ripeté il Gatto.
- Ma com'è mai possibile che diventino tanti? - domandò Pinocchio, restando
a bocca aperta dallo stupore.
- Te lo spiego subito - disse la Volpe. - Bisogna sapere che nel paese
dei Barbagianni c'è un campo benedetto, chiamato da tutti il Campo dei
miracoli. Tu fai in questo campo una piccola buca e ci metti dentro,
per esempio, uno zecchino d'oro. Poi ricopri la buca con un po' di terra:
l'annaffi con due secchie d'acqua di fontana, ci getti sopra una presa
di sale, e la sera te ne vai tranquillamente a letto. Intanto, durante
la notte, lo zecchino germoglia e fiorisce, e la mattina dopo, di levata,
ritornando nel campo, che cosa trovi? Trovi un bell'albero carico di
tanti zecchini d'oro quanti chicchi di grano può avere una bella spiga
nel mese di giugno.
- Sicché dunque - disse Pinocchio sempre piú sbalordito - se io sotterrassi
in quel campo i miei cinque zecchini, la mattina dopo quanti zecchini
ci troverei?
- È un conto facilissimo - rispose la Volpe - un conto che puoi farlo
sulla punta delle dita. Poni che ogni zecchino ti faccia un grappolo
di cinquecento zecchini: moltiplica il cinquecento per cinque, e la
mattina dopo ti trovi in tasca duemilacinquecento zecchini lampanti
e sonanti.
- Oh che bella cosa! - gridò Pinocchio, ballando dall'allegrezza. -
Appena che questi zecchini li avrò raccolti, ne prenderò per me duemila
e gli altri cinquecento di piú li darò in regalo a voialtri due.
- Un regalo a noi? - gridò la Volpe sdegnandosi e chiamandosi offesa.
- Dio te ne liberi!
- Te ne liberi! - ripeté il Gatto.
- Noi - riprese la Volpe - non lavoriamo per il vile interesse: noi
lavoriamo unicamente per arricchire gli altri.
- Gli altri! - ripeté il Gatto.
- Che brave persone! - pensò dentro di sé Pinocchio: e dimenticandosi
lí sul tamburo, del suo babbo, della casacca nuova, dell'Abbecedario
e di tutti i buoni proponimenti fatti, disse alla Volpe e al Gatto:
- Andiamo subito, io vengo con voi. -
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XIII
L'osteria
del "Gambero Rosso".
Cammina, cammina, cammina, alla
fine sul far della sera arrivarono stanchi morti all'osteria del Gambero
Rosso.
- Fermiamoci un po' qui - disse la Volpe - tanto per mangiare un boccone
e per riposarci qualche ora. A mezzanotte poi ripartiremo per essere
domani, all'alba, nel Campo dei miracoli. -
Entrati nell'osteria, si posero tutti e tre a tavola: ma nessuno di
loro aveva appetito.
Il povero Gatto, sentendosi gravemente indisposto di stomaco, non poté
mangiare altro che trentacinque triglie con salsa di pomodoro e quattro
porzioni di trippa alla parmigiana: e perché la trippa non gli pareva
condita abbastanza, si rifece tre volte a chiedere il burro e il formaggio
grattato!
La Volpe avrebbe spelluzzicato volentieri qualche cosa anche lei: ma
siccome il medico le aveva ordinato una grandissima dieta, cosí dové
contentarsi di una semplice lepre dolce e forte con un leggerissimo
contorno di pollastre ingrassate e di galletti di primo canto. Dopo
la lepre, si fece portare per tornagusto un cibreino di pernici, di
starne, di conigli, di ranocchi, di lucertole e d'uva paradisa; e poi
non volle altro. Aveva tanta nausea per il cibo, diceva lei, che non
poteva accostarsi nulla alla bocca.
Quello che mangiò meno di tutti fu Pinocchio. Chiese uno spicchio di
noce e un cantuccio di pane, e lasciò nel piatto ogni cosa. Il povero
figliuolo, col pensiero sempre fisso al Campo dei miracoli, aveva preso
un'indigestione anticipata di monete d'oro.
Quand'ebbero cenato, la Volpe disse all'oste:
- Datemi due buone camere, una per il signor Pinocchio e un'altra per
me e per il mio compagno. Prima di ripartire stiacceremo un sonnellino.
Ricordatevi però che a mezzanotte vogliamo essere svegliati per continuare
il nostro viaggio.
- Sissignori - rispose l'oste, e strizzò l'occhio alla Volpe e al Gatto,
come dire: "Ho mangiata la foglia e ci siamo intesi!..."
Appena che Pinocchio fu entrato nel letto, si addormentò a colpo e principiò
a sognare. E sognando gli pareva di essere in mezzo a un campo, e questo
campo era pieno di arboscelli carichi di grappoli, e questi grappoli
erano carichi di zecchini d'oro che, dondolandosi mossi dal vento, facevano
zin, zin, zin, quasi volessero dire "chi ci vuole, venga a prenderci".
Ma quando Pinocchio fu sul piú bello, quando, cioè, allungò la mano
per prendere a manciate tutte quelle belle monete e mettersele in tasca,
si trovò svegliato all'improvviso da tre violentissimi colpi dati nella
porta di camera.
Era l'oste che veniva a dirgli che la mezzanotte era sonata.
- E i miei compagni sono pronti? - gli domandò il burattino.
- Altro che pronti! Sono partiti due ore fa.
- Perché mai tanta fretta?
- Perché il Gatto ha ricevuto un'imbasciata, che il suo gattino maggiore,
malato di geloni ai piedi, stava in pericolo di vita.
- E la cena l'hanno pagata?
- Che vi pare? Quelle lí sono persone troppo educate, perché facciano
un affronto simile alla signoria vostra.
- Peccato! Quest'affronto mi avrebbe fatto tanto piacere! - disse Pinocchio,
grattandosi il capo. Poi domandò:
- E dove hanno detto di aspettarmi quei buoni amici?
- Al Campo dei miracoli, domattina, allo spuntare del giorno. -
Pinocchio pagò uno zecchino per la cena sua e per quella dei suoi compagni,
e dopo partí.
Ma si può dire che partisse a tastoni, perché fuori dell'osteria c'era
un buio cosí buio che non ci si vedeva da qui a lí. Nella campagna all'intorno
non si sentiva alitare una foglia. Solamente, di tanto in tanto, alcuni
uccellacci notturni, traversando la strada da una siepe all'altra, venivano
a sbattere le ali sul naso di Pinocchio, il quale facendo un salto indietro
per la paura, gridava: - Chi va là? - e l'eco delle colline circostanti
ripeteva in lontananza: - Chi va là? chi va là? chi va là? -
Intanto, mentre camminava, vide sul tronco di un albero un piccolo animaletto
che riluceva di una luce pallida e opaca, come un lumino da notte dentro
una lampada di porcellana trasparente.
- Chi sei? - gli domandò Pinocchio.
- Sono l'ombra del Grillo-parlante - rispose l'animaletto con una vocina
fioca fioca, che pareva venisse dal mondo di là.
- Che vuoi da me? - disse il burattino.
- Voglio darti un consiglio. Ritorna indietro e porta i quattro zecchini,
che ti sono rimasti, al tuo povero babbo, che piange e si dispera per
non averti piú veduto.
- Domani il mio babbo sarà un gran signore, perché questi quattro zecchini
diventeranno duemila.
- Non ti fidare, ragazzo mio, di quelli che promettono di farti ricco
dalla mattina alla sera. Per il solito o sono matti o imbroglioni! Dài
retta a me, ritorna indietro.
- E io invece voglio andare avanti.
- L'ora è tarda!...
- Voglio andare avanti.
- La nottata è scura...
- Voglio andare avanti.
- La strada è pericolosa...
- Voglio andare avanti.
- Ricordati che i ragazzi che vogliono fare di capriccio e a modo loro,
prima o poi se ne pentono.
- Le solite storie. Buona notte, Grillo.
- Buona notte, Pinocchio, e che il cielo ti salvi dalla guazza e dagli
assassini. -
Appena dette queste ultime parole, il Grillo-parlante si spense a un
tratto, come si spenge un lume soffiandoci sopra, e la strada rimase
piú buia di prima.
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XIV
Pinocchio,
per non aver dato retta ai buoni consigli del Grillo-parlante, s'imbatte
negli assassini.
- Davvero - disse fra sé il burattino
rimettendosi in viaggio - come siamo disgraziati noi altri poveri ragazzi!
Tutti ci sgridano, tutti ci ammoniscono, tutti ci dànno dei consigli.
A lasciarli dire, tutti si metterebbero in capo di essere i nostri babbi
e i nostri maestri; tutti: anche i Grilli-parlanti. Ecco qui: perché
io non ho voluto dar retta a quell'uggioso di Grillo, chi lo sa quante
disgrazie, secondo lui, mi dovrebbero accadere! Dovrei incontrare anche
gli assassini! Meno male che agli assassini io non ci credo, né ci ho
creduto mai. Per me gli assassini sono stati inventati apposta dai babbi,
per far paura ai ragazzi che vogliono andar fuori la notte. E poi se
anche li trovassi qui sulla strada, mi darebbero forse soggezione? Neanche
per sogno. Anderei loro sul viso, gridando: "Signori assassini,
che cosa vogliono da me? Si rammentino che con me non si scherza! Se
ne vadano dunque per i fatti loro, e zitti!" A questa parlantina
fatta sul serio, quei poveri assassini, mi par di vederli, scapperebbero
via come il vento. Caso poi fossero tanto ineducati da non volere scappare,
allora scapperei io, e cosí la farei finita... -
Ma Pinocchio non poté finire il suo ragionamento, perché in quel punto
gli parve di sentire dietro di sé un leggerissimo fruscío di foglie.
Si voltò a guardare, e vide nel buio due figuracce nere, tutte imbacuccate
in due sacchi da carbone, le quali correvano dietro a lui a salti e
in punta di piedi, come se fossero due fantasmi.
- Eccoli davvero! - disse dentro di sé: e non sapendo dove nascondere
i quattro zecchini, se li nascose in bocca e precisamente sotto la lingua.
Poi si provò a scappare. Ma non aveva ancora fatto il primo passo, che
sentí agguantarsi per le braccia e intese due voci orribili e cavernose,
che gli dissero:
- O la borsa o la vita! -
Pinocchio non potendo rispondere con le parole, a motivo delle monete
che aveva in bocca, fece mille salamelecchi e mille pantomime, per dare
ad intendere a quei due incappati, di cui si vedevano soltanto gli occhi
attraverso i buchi dei sacchi, che lui era un povero burattino e che
non aveva in tasca nemmeno un centesimo falso.
- Via, via! Meno ciarle e fuori i denari! - gridarono minacciosamente
i due briganti.
E il burattino fece col capo e colle mani un segno, come dire: "Non
ne ho".
- Metti fuori i denari o sei morto - disse l'assassino piú alto di statura.
- Morto! - ripeté l'altro.
- E dopo ammazzato te, ammazzeremo anche tuo padre!
- Anche tuo padre!
- No, no, no, il mio povero babbo no! - gridò Pinocchio con accento
disperato: ma nel gridare cosí, gli zecchini gli sonarono in bocca.
- Ah furfante! dunque i danari te li sei nascosti sotto la lingua? Sputali
subito! -
E Pinocchio, duro!
- Ah! tu fai il sordo? Aspetta un po', ché penseremo noi a farteli sputare!
-
Difatti uno di loro afferrò il burattino per la punta del naso e quell'altro
lo prese per la bazza, e lí cominciarono a tirare screanzatamente uno
per in qua e l'altro per in là, tanto da costringerlo a spalancare la
bocca: ma non ci fu verso. La bocca del burattino pareva inchiodata
e ribadita.
Allora l'assassino piú piccolo di statura, cavato fuori un coltellaccio,
provò a conficcarglielo a guisa di leva e di scalpello fra le labbra:
ma Pinocchio, lesto come un lampo, gli azzannò la mano coi denti, e
dopo avergliela con un morso staccata di netto, la sputò; e figuratevi
la sua meraviglia quando, invece di una mano, si accòrse di avere sputato
in terra uno zampetto di gatto.
Incoraggito da questa prima vittoria, si liberò a forza dalle unghie
degli assassini, e saltata la siepe della strada, cominciò a fuggire
per la campagna. E gli assassini a correre dietro a lui, come due cani
dietro una lepre: e quello che aveva perduto uno zampetto correva con
una gamba sola, né si è saputo mai come facesse.
Dopo una corsa di quindici chilometri, Pinocchio non ne poteva piú.
Allora, vistosi perso, si arrampicò su per il fusto di un altissimo
pino e si pose a sedere in vetta ai rami. Gli assassini tentarono di
arrampicarsi anche loro, ma giunti a metà del fusto sdrucciolarono e,
ricascando a terra, si spellarono le mani e i piedi.
Non per questo si dettero per vinti: ché anzi, raccolto un fastello
di legna secche a piè del pino, vi appiccarono il fuoco. In men che
non si dice, il pino cominciò a bruciare e a divampare come una candela
agitata dal vento. Pinocchio, vedendo che le fiamme salivano sempre
piú e non volendo far la fine del piccione arrosto, spiccò un bel salto
di vetta all'albero, e via a correre daccapo attraverso ai campi e ai
vigneti. E gli assassini dietro, sempre dietro, senza stancarsi mai.
Intanto cominciava a baluginare il giorno e si rincorrevano sempre;
quand'ecco che Pinocchio si trovò improvvisamente sbarrato il passo
da un fosso largo e profondissimo, tutto pieno di acquaccia sudicia,
color del caffè e latte. Che fare? "Una, due, tre!" gridò
il burattino, e slanciandosi con una gran rincorsa, saltò dall'altra
parte. E gli assassini saltarono anche loro, ma non avendo preso bene
la misura, patatunfete!... cascarono giú nel bel mezzo del fosso. Pinocchio
che sentí il tonfo e gli schizzi dell'acqua, urlò ridendo e seguitando
a correre:
- Buon bagno, signori assassini! -
E già si figurava che fossero bell'e affogati, quando invece, voltandosi
a guardare, si accòrse che gli correvano dietro tutti e due, sempre
imbacuccati nei loro sacchi, e grondanti acqua come due panieri sfondati.
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XV
Gli
assassini inseguono Pinocchio; e dopo averlo raggiunto, lo impiccano
a un ramo della Quercia grande.
Allora il burattino, perdutosi
d'animo, fu proprio sul punto di gettarsi in terra e di darsi per vinto,
quando, nel girare gli occhi all'intorno, vide fra mezzo al verde cupo
degli alberi biancheggiare in lontananza una casina candida come la
neve.
- Se io avessi tanto fiato da arrivare fino a quella casa, forse sarei
salvo! - disse dentro di sé.
E senza indugiare un minuto, riprese a correre per il bosco a carriera
distesa. E gli assassini sempre dietro.
Dopo una corsa disperata di quasi due ore, finalmente, tutto trafelato,
arrivò alla porta di quella casina e bussò.
Nessuno rispose.
Tornò a bussare con maggior violenza, perché sentiva avvicinarsi il
rumore dei passi e il respiro grosso e affannoso de' suoi persecutori.
Lo stesso silenzio.
Avvedutosi che il bussare non giovava a nulla, cominciò per disperazione
a dare calci e zuccate nella porta. Allora si affacciò alla finestra
una bella Bambina, coi capelli turchini e il viso bianco come un'immagine
di cera, gli occhi chiusi e le mani incrociate sul petto, la quale,
senza muover punto le labbra, disse con una vocina che pareva venisse
dall'altro mondo:
- In questa casa non c'è nessuno. Sono tutti morti.
- Aprimi almeno tu! - gridò Pinocchio piangendo e raccomandandosi.
- Sono morta anch'io.
- Morta? e allora che cosa fai costí alla finestra?
- Aspetto la bara che venga a portarmi via. -
Appena detto cosí, la Bambina disparve, e la finestra si richiuse senza
far rumore.
- O bella Bambina dai capelli turchini, - gridava Pinocchio - aprimi
per carità. Abbi compassione di un povero ragazzo inseguito dagli assass...
-
Ma non poté finir la parola, perché sentí afferrarsi per il collo, e
le solite due vociacce che gli brontolarono minacciosamente:
- Ora non ci scappi piú! -
Il burattino, vedendosi balenare la morte dinanzi agli occhi, fu preso
da un tremito cosí forte, che nel tremare, gli sonavano le giunture
delle sue gambe di legno e i quattro zecchini che teneva nascosti sotto
la lingua.
- Dunque? - gli domandarono gli assassini - vuoi aprirla la bocca, sí
o no? Ah! non rispondi?... Lascia fare: ché questa volta te la faremo
aprir noi!... -
E cavati fuori due coltellacci lunghi lunghi e affilati come rasoi,
zaff e zaff..., gli affibbiarono due colpi nel mezzo alle reni.
Ma il burattino per sua fortuna era fatto d'un legno durissimo, motivo
per cui le lame, spezzandosi, andarono in mille schegge e gli assassini
rimasero col manico dei coltelli in mano, a guardarsi in faccia.
- Ho capito - disse allora un di loro - bisogna impiccarlo! Impicchiamolo!
- Impicchiamolo! - ripeté l'altro.
Detto fatto, gli legarono le mani dietro le spalle, e, passatogli un
nodo scorsoio intorno alla gola, lo attaccarono penzoloni al ramo di
una grossa pianta detta la Quercia grande.
Poi si posero là, seduti sull'erba, aspettando che il burattino facesse
l'ultimo sgambetto: ma il burattino, dopo tre ore, aveva sempre gli
occhi aperti, la bocca chiusa e sgambettava piú che mai.
Annoiati finalmente di aspettare, si voltarono a Pinocchio e gli dissero
sghignazzando:
- Addio a domani. Quando domani torneremo qui, si spera che ci farai
la garbatezza di farti trovare bell'e morto e con la bocca spalancata.
-
E se ne andarono.
Intanto s'era levato un vento impetuoso di tramontana, che soffiando
e mugghiando con rabbia, sbatacchiava in qua e in là il povero impiccato,
facendolo dondolare violentemente come il battaglio d'una campana che
suona a festa. E quel dondolío gli cagionava acutissimi spasimi, e il
nodo scorsoio, stringendosi sempre piú alla gola, gli toglieva il respiro.
A poco a poco gli occhi gli si appannarono; e sebbene sentisse avvicinarsi
la morte, pure sperava sempre che da un momento all'altro sarebbe capitata
qualche anima pietosa a dargli aiuto. Ma quando, aspetta aspetta, vide
che non compariva nessuno, proprio nessuno, allora gli tornò in mente
il suo povero babbo... e balbettò quasi moribondo:
- Oh babbo mio! se tu fossi qui!... -
E non ebbe fiato per dir altro. Chiuse gli occhi, aprí la bocca, stirò
le gambe e, dato un grande scrollone, rimase lí come intirizzito.
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XVI
La
bella Bambina dai capelli turchini fa raccogliere il burattino:
lo mette a letto, e chiama tre medici per sapere se sia vivo o morto.
In quel mentre che il povero
Pinocchio impiccato dagli assassini a un ramo della Quercia grande,
pareva oramai piú morto che vivo, la bella Bambina dai capelli turchini
si affacciò daccapo alla finestra, e impietositasi alla vista di quell'infelice
che, sospeso per il collo, ballava il trescone alle ventate di tramontana,
batté per tre volte le mani insieme, e fece tre piccoli colpi.
A questo segnale si sentí un gran rumore di ali che volavano con foga
precipitosa, e un grosso Falco venne a posarsi sul davanzale della finestra.
- Che cosa comandate, mia graziosa Fata? - disse il Falco abbassando
il becco in atto di riverenza (perché bisogna sapere che la Bambina
dai capelli turchini non era altro in fin dei conti che una bonissima
Fata, che da piú di mill'anni abitava nelle vicinanze di quel bosco).
- Vedi tu quel burattino attaccato penzoloni a un ramo della Quercia
grande?
- Lo vedo.
- Orbene: vola subito laggiú; rompi col tuo fortissimo becco il nodo
che lo tiene sospeso in aria, e posalo delicatamente sdraiato sull'erba,
a piè della Quercia. -
Il Falco volò via e dopo due minuti tornò, dicendo:
- Quel che mi avete comandato, è fatto.
- E come l'hai trovato? Vivo o morto?
- A vederlo pareva morto, ma non dev'essere ancora morto perbene, perché
appena gli ho sciolto il nodo scorsoio che lo stringeva intorno alla
gola, ha lasciato andare un sospiro, balbettando a mezza voce: "Ora
mi sento meglio!..." -
Allora la Fata, battendo le mani insieme, fece due piccoli colpi, e
apparve un magnifico Can-barbone, che camminava ritto sulle gambe di
dietro, tale e quale come se fosse un uomo.
Il Can-barbone era vestito da cocchiere in livrea di gala. Aveva in
capo un nicchiettino a tre punte gallonato d'oro, una parrucca bianca
coi riccioli che gli scendevano giú per il collo, una giubba color di
cioccolata coi bottoni di brillanti e con due grandi tasche per tenervi
gli ossi, che gli regalava a pranzo la padrona, un paio di calzon corti
di velluto cremisi, le calze di seta, gli scarpini scollati, e di dietro
una specie di fodera da ombrelli, tutta di raso turchino, per mettervi
dentro la coda, quando il tempo cominciava a piovere.
- Su da bravo, Medoro! - disse la Fata al Can-barbone. - Fa' subito
attaccare la piú bella carrozza della mia scuderia e prendi la via del
bosco. Arrivato che sarai sotto la Quercia grande, troverai disteso
sull'erba un povero burattino mezzo morto. Raccoglilo con garbo, posalo
pari pari su i cuscini della carrozza e portamelo qui. Hai capito? -
Il Can-barbone, per fare intendere che aveva capito, dimenò tre o quattro
volte la fodera di raso turchino, che aveva dietro, e partí come un
barbero.
Di lí a poco, si vide uscire dalla scuderia una bella carrozzina color
dell'aria, tutta imbottita di penne di canarino e foderata nell'interno
di panna montata e di crema coi savoiardi. La carrozzina era tirata
da cento pariglie di topini bianchi, e il Can-barbone, seduto a cassetta,
schioccava la frusta a destra e a sinistra, come un vetturino quand'ha
paura di aver fatto tardi.
Non era ancora passato un quarto d'ora, che la carrozzina tornò e la
Fata, che stava aspettando sull'uscio di casa, prese in collo il povero
burattino, e portatolo in una cameretta che aveva le pareti di madreperla,
mandò subito a chiamare i medici piú famosi del vicinato.
E i medici arrivarono subito uno dopo l'altro: arrivò, cioè, un Corvo,
una Civetta e un Grillo-parlante.
- Vorrei sapere da lor signori - disse la Fata, rivolgendosi ai tre
medici riuniti intorno al letto di Pinocchio - vorrei sapere da lor
signori se questo disgraziato burattino sia vivo o morto!... -
A quest'invito, il Corvo, facendosi avanti per il primo, tastò il polso
a Pinocchio, poi gli tastò il naso, poi il dito mignolo dei piedi: e
quand'ebbe tastato ben bene, pronunziò solennemente queste parole:
- A mio credere il burattino è bell'e morto: ma se per disgrazia non
fosse morto, allora sarebbe indizio sicuro che è sempre vivo!
- Mi dispiace - disse la Civetta - di dover contraddire il Corvo, mio
illustre amico e collega: per me, invece, il burattino è sempre vivo;
ma se per disgrazia non fosse vivo, allora sarebbe segno che è morto
davvero.
- E lei non dice nulla? - domandò la Fata al Grillo-parlante.
- Io dico che il medico prudente, quando non sa quello che dice, la
miglior cosa che possa fare, è quella di stare zitto. Del resto quel
burattino lí, non m'è fisonomia nuova: io lo conosco da un pezzo! -
Pinocchio, che fin allora era stato immobile come un vero pezzo di legno,
ebbe una specie di fremito convulso, che fece scuotere tutto il letto.
- Quel burattino lí - seguitò a dire il Grillo-parlante - è una birba
matricolata... -
Pinocchio aprí gli occhi e li richiuse subito.
- È un monellaccio, uno svogliato, un vagabondo... -
Pinocchio si nascose la faccia sotto i lenzuoli.
- Quel burattino lí è un figliuolo disubbidiente, che farà morire di
crepacuore il suo povero babbo!... -
A questo punto si sentí nella camera un suono soffocato di pianti e
di singhiozzi. Figuratevi come rimasero tutti, allorché, sollevati un
poco i lenzuoli, si accòrsero che quello che piangeva e singhiozzava
era Pinocchio.
- Quando il morto piange, è segno che è in via di guarigione - disse
solennemente il Corvo.
- Mi duole di contraddire il mio illustre amico e collega - soggiunse
la Civetta - ma per me quando il morto piange, è segno che gli dispiace
a morire. -
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XVII
Pinocchio
mangia lo zucchero, ma non vuol purgarsi:
però quando vede i becchini che vengono a portarlo via, allora si purga.
Poi dice una bugia e per gastigo gli cresce il naso.
Appena i tre medici furono usciti
di camera, la Fata si accostò a Pinocchio, e, dopo averlo toccato sulla
fronte, si accòrse che era travagliato da un febbrone da non si dire.
Allora sciolse una certa polverina bianca in un mezzo bicchier d'acqua,
e porgendolo al burattino, gli disse amorosamente:
- Bevila, e in pochi giorni sarai guarito. -
Pinocchio guardò il bicchiere, storse un po' la bocca, e poi dimandò
con voce di piagnisteo:
- È dolce o amara?
- È amara, ma ti farà bene.
- Se è amara non la voglio.
- Da' retta a me: bevila.
- A me l'amaro non mi piace.
- Bevila: e quando l'avrai bevuta, ti darò una pallina di zucchero,
per rifarti la bocca.
- Dov'è la pallina di zucchero?
- Eccola qui - disse la Fata, tirandola fuori da una zuccheriera d'oro.
- Prima voglio la pallina di zucchero, e poi beverò quell'acquaccia
amara...
- Me lo prometti?
- Sí... -
La Fata gli dètte la pallina, e Pinocchio, dopo averla sgranocchiata
e ingoiata in un àttimo, disse leccandosi i labbri:
- Bella cosa se anche lo zucchero fosse una medicina!... Mi purgherei
tutti i giorni.
- Ora mantieni la promessa e bevi queste poche gocciole d'acqua, che
ti renderanno la salute. -
Pinocchio prese di mala voglia il bicchiere in mano e vi ficcò dentro
la punta del naso: poi se l'accostò alla bocca: poi tornò a ficcarci
la punta del naso: finalmente disse:
- È troppo amara! troppo amara! Io non la posso bere.
- Come fai a dirlo se non l'hai nemmeno assaggiata?
- Me lo figuro! L'ho sentita all'odore. Voglio prima un'altra pallina
di zucchero... e poi la beverò! -
Allora la Fata, con tutta la pazienza di una buona mamma, gli pose in
bocca un altro po' di zucchero; e dopo gli presentò daccapo il bicchiere.
- Cosí non la posso bere! - disse il burattino, facendo mille smorfie.
- Perché?
- Perché mi dà noia quel guanciale che ho laggiú su i piedi. -
La Fata gli levò il guanciale.
- È inutile! Nemmeno cosí la posso bere.
- Che cos'altro ti dà noia?
- Mi dà noia l'uscio di camera, che è mezzo aperto. -
La Fata andò, e chiuse l'uscio di camera.
- Insomma - gridò Pinocchio, dando in uno scoppio di pianto - quest'acquaccia
amara, non la voglio bere, no, no, no!...
- Ragazzo mio, te ne pentirai...
- Non me n'importa...
- La tua malattia è grave...
- Non me n'importa...
- La febbre ti porterà in poche ore all'altro mondo...
- Non me n'importa...
- Non hai paura della morte?
- Nessuna paura!... Piuttosto morire, che bevere quella medicina cattiva.
-
A questo punto, la porta della camera si spalancò, ed entrarono dentro
quattro conigli neri come l'inchiostro, che portavano sulle spalle una
piccola bara da morto.
- Che cosa volete da me? - gridò Pinocchio, rizzandosi tutto impaurito
a sedere sul letto.
- Siamo venuti a prenderti - rispose il coniglio piú grosso.
- A prendermi?... Ma io non sono ancora morto!...
- Ancora no: ma ti restano pochi minuti di vita, avendo tu ricusato
di bevere la medicina, che ti avrebbe guarito della febbre!...
- O Fata mia, o Fata mia! - cominciò allora a strillare il burattino
- datemi subito quel bicchiere... Spicciatevi, per carità, perché non
voglio morire, no... non voglio morire. -
E preso il bicchiere con tutte e due le mani, lo votò in un fiato.
- Pazienza! - dissero i conigli. - Per questa volta abbiamo fatto il
viaggio a ufo. - E tiratisi di nuovo la piccola bara sulle spalle, uscirono
di camera bofonchiando e mormorando fra i denti.
Fatto sta che di lí a pochi minuti, Pinocchio saltò giú dal letto, bell'e
guarito; perché bisogna sapere che i burattini di legno hanno il privilegio
di ammalarsi di rado e di guarire prestissimo.
E la Fata, vedendolo correre e ruzzare per la camera, vispo e allegro
come un gallettino di primo canto, gli disse:
- Dunque la mia medicina t'ha fatto bene davvero?
- Altro che bene! Mi ha rimesso al mondo!...
- E allora come mai ti sei fatto tanto pregare a beverla?
- Egli è che noi ragazzi siamo tutti cosí! Abbiamo piú paura delle medicine
che del male.
- Vergogna! I ragazzi dovrebbero sapere che un buon medicamento preso
a tempo, può salvarli da una grave malattia e fors'anche dalla morte...
- Oh! ma un'altra volta non mi farò tanto pregare! Mi rammenterò di
quei conigli neri, con la bara sulle spalle... e allora piglierò subito
il bicchiere in mano, e giú!...
- Ora vieni un po' qui da me, e raccontami come andò che ti trovasti
fra le mani degli assassini.
- Gli andò, che il burattinaio Mangiafoco mi dètte cinque monete d'oro,
e mi disse: "To', portale al tuo babbo!", e io, invece, per
la strada trovai una Volpe e un Gatto, due persone molto per bene, che
mi dissero: "Vuoi che codeste monete diventino mille e duemila?
Vieni con noi, e ti condurremo al Campo dei miracoli". E io dissi:
"Andiamo"; e loro dissero: "Fermiamoci qui all'osteria
del Gambero rosso, e dopo la mezzanotte ripartiremo". E io, quando
mi svegliai, loro non c'erano piú, perché erano partiti. Allora io cominciai
a camminare di notte, che era un buio che pareva impossibile, per cui
trovai per la strada due assassini dentro due sacchi da carbone, che
mi dissero: "Metti fuori i quattrini"; e io dissi: "non
ce n'ho"; perché le monete d'oro me l'ero nascoste in bocca, e
uno degli assassini si provò a mettermi le mani in bocca, e io con un
morso gli staccai la mano e poi la sputai, ma invece di una mano sputai
uno zampetto di gatto. E gli assassini a corrermi dietro, e io corri
che ti corro, finché mi raggiunsero, e mi legarono per il collo a un
albero di questo bosco col dire: "Domani torneremo qui, e allora
sarai morto e colla bocca aperta, e cosí ti porteremo via le monete
d'oro che hai nascoste sotto la lingua".
- E ora le quattro monete dove le hai messe? - gli domandò la Fata.
- Le ho perdute! - rispose Pinocchio; ma disse una bugia, perché invece
le aveva in tasca.
Appena detta la bugia il suo naso, che era già lungo, gli crebbe subito
due dita di piú.
- E dove le hai perdute?
- Nel bosco qui vicino. -
A questa seconda bugia, il naso seguitò a crescere.
- Se le hai perdute nel bosco vicino - disse la Fata - le cercheremo
e le ritroveremo: perché tutto quello che si perde nel vicino bosco,
si ritrova sempre.
- Ah! ora che mi rammento bene - replicò il burattino imbrogliandosi
- le quattro monete non le ho perdute, ma senza avvedermene, le ho inghiottite
mentre bevevo la vostra medicina. -
A questa terza bugia, il naso gli si allungò in un modo cosí straordinario,
che il povero Pinocchio non poteva piú girarsi da nessuna parte. Se
si voltava di qui, batteva il naso nel letto o nei vetri della finestra,
se si voltava di là, lo batteva nelle pareti o nella porta di camera,
se alzava un po' piú il capo, correva il rischio di ficcarlo in un occhio
alla Fata.
E la Fata lo guardava e rideva.
- Perché ridete? - gli domandò il burattino, tutto confuso e impensierito
di quel suo naso che cresceva a occhiate.
- Rido della bugia che hai detto.
- Come mai sapete che ho detto una bugia?
- Le bugie, ragazzo mio, si riconoscono subito, perché ve ne sono di
due specie: vi sono le bugie che hanno le gambe corte, e le bugie che
hanno il naso lungo: la tua per l'appunto è di quelle che hanno il naso
lungo. -
Pinocchio, non sapendo piú dove nascondersi per la vergogna, si provò
a fuggire di camera; ma non gli riuscí. Il suo naso era cresciuto tanto,
che non passava piú dalla porta.
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XVIII
Pinocchio
ritrova la Volpe e il Gatto, e va con loro a seminare le quattro monete
nel Campo de' miracoli.
Come potete immaginarvelo, la
Fata lasciò che il burattino piangesse e urlasse una buona mezz'ora,
a motivo di quel suo naso che non passava piú dalla porta di camera;
e lo fece per dargli una severa lezione e perché si correggesse dal
brutto vizio di dire le bugie, il piú brutto vizio che possa avere un
ragazzo. Ma quando lo vide trasfigurato e cogli occhi fuori della testa
dalla gran disperazione, allora, mossa a pietà, batté le mani insieme,
e a quel segnale entrarono in camera dalla finestra un migliaio di grossi
uccelli chiamati Picchi, i quali, posatisi tutti sul naso di Pinocchio,
cominciarono a beccarglielo tanto e poi tanto, che in pochi minuti quel
naso enorme e spropositato si trovò ridotto alla sua grandezza naturale.
- Quanto siete buona, Fata mia, - disse il burattino, asciugandosi gli
occhi - e quanto bene vi voglio!
- Ti voglio bene anch'io - rispose la Fata - e se tu vuoi rimanere con
me, tu sarai il mio fratellino e io la tua buona sorellina...
- Io resterei volentieri... ma il mio povero babbo?
- Ho pensato a tutto. Il tuo babbo è stato digià avvertito: e prima
che faccia notte, sarà qui.
- Davvero? - gridò Pinocchio, saltando dall'allegrezza. - Allora, Fatina
mia, se vi contentate, vorrei andargli incontro! Non vedo l'ora di poter
dare un bacio a quel povero vecchio, che ha sofferto tanto per me!
- Va' pure, ma bada di non ti sperdere. Prendi la via del bosco, e sono
sicura che lo incontrerai. -
Pinocchio partí: e appena entrato nel bosco, cominciò a correre come
un capriòlo. Ma quando fu arrivato a un certo punto, quasi in faccia
alla Quercia grande, si fermò, perché gli parve di aver sentito gente
fra mezzo alle frasche. Difatti vide apparire sulla strada, indovinate
chi?... la Volpe e il Gatto, ossia i due compagni di viaggio coi quali
aveva cenato all'osteria del Gambero rosso.
- Ecco il nostro caro Pinocchio! - gridò la Volpe, abbracciandolo e
baciandolo. - Come mai sei qui?
- Come mai sei qui? - ripeté il Gatto.
- È una storia lunga - disse il burattino - e ve la racconterò a comodo.
Sappiate però che l'altra notte, quando mi avete lasciato solo sull'osteria,
ho trovato gli assassini per la strada...
- Gli assassini?... Oh povero amico! E che cosa volevano?
- Mi volevano rubare le monete d'oro.
- Infami!... - disse la Volpe.
- Infamissimi! - ripeté il Gatto.
- Ma io cominciai a scappare - continuò a dire il burattino - e loro
sempre dietro: finché mi raggiunsero e m'impiccarono a un ramo di quella
quercia... -
E Pinocchio accennò la Quercia grande, che era lí a due passi.
- Si può sentir di peggio? - disse la Volpe. - In che mondo siamo condannati
a vivere! Dove troveremo un rifugio sicuro noi altri galantuomini? -
Nel tempo che parlavano cosí, Pinocchio si accòrse che il Gatto era
zoppo dalla gamba destra davanti, perché gli mancava in fondo tutto
lo zampetto cogli unghioli: per cui gli domandò:
- Che cosa hai fatto del tuo zampetto? -
Il Gatto voleva rispondere qualche cosa, ma s'imbrogliò. Allora la Volpe
disse subito:
- Il mio amico è troppo modesto, e per questo non risponde. Risponderò
io per lui. Sappi dunque che un'ora fa abbiamo incontrato sulla strada
un vecchio lupo, quasi svenuto dalla fame, che ci ha chiesto un po'
d'elemosina. Non avendo noi da dargli nemmeno una lisca di pesce, che
cosa ha fatto l'amico mio, che ha davvero un cuore di Cesare? Si è staccato
coi denti uno zampetto delle sue gambe davanti e l'ha gettato a quella
povera bestia, perché potesse sdigiunarsi. -
E la Volpe, nel dir cosí, si asciugò una lagrima.
Pinocchio, commosso anche lui, si avvicinò al Gatto, sussurrandogli
negli orecchi:
- Se tutti i gatti ti somigliassero, fortunati i topi!...
- E ora che cosa fai in questi luoghi? - domandò la Volpe al burattino.
- Aspetto il mio babbo, che deve arrivare qui di momento in momento.
- E le tue monete d'oro?
- Le ho sempre in tasca, meno una che la spesi all'osteria del Gambero
rosso.
- E pensare che, invece di quattro monete, potrebbero diventare domani
mille e duemila! Perché non dài retta al mio consiglio? Perché non vai
a seminarle nel Campo dei miracoli?
- Oggi è impossibile: vi anderò un altro giorno.
- Un altro giorno sarà tardi!... - disse la Volpe.
- Perché?
- Perché quel campo è stato comprato da un gran signore, e da domani
in là non sarà piú permesso a nessuno di seminarvi i denari.
- Quant'è distante di qui il Campo dei miracoli?
- Due chilometri appena. Vuoi venire con noi? Fra mezz'ora sei là: semini
subito le quattro monete: dopo pochi minuti ne raccogli duemila, e stasera
ritorni qui colle tasche piene. Vuoi venire con noi? -
Pinocchio esitò un poco a rispondere, perché gli tornò in mente la buona
Fata, il vecchio Geppetto e gli avvertimenti del Grillo-parlante; ma
poi finí col fare come fanno tutti i ragazzi senza un fil di giudizio
e senza cuore; finí, cioè, col dare una scrollatina di capo, e disse
alla Volpe e al Gatto:
- Andiamo pure: io vengo con voi. -
E partirono.
Dopo aver camminato una mezza giornata arrivarono a una città che aveva
nome "Acchiappa-citrulli". Appena entrato in città, Pinocchio
vide tutte le strade popolate di cani spelacchiati, che sbadigliavano
dall'appetito, di pecore tosate, che tremavano dal freddo, di galline
rimaste senza cresta e senza bargigli, che chiedevano l'elemosina d'un
chicco di granturco, di grosse farfalle, che non potevano piú volare,
perché avevano venduto le loro bellissime ali colorite, di pavoni tutti
scodati, che si vergognavano a farsi vedere, e di fagiani che zampettavano
cheti cheti, rimpiangendo le loro scintillanti penne d'oro e d'argento,
oramai perdute per sempre.
In mezzo a questa folla di accattoni e di poveri vergognosi, passavano
di tanto in tanto alcune carrozze signorili con dentro o qualche Volpe,
o qualche Gazza ladra, o qualche uccellaccio di rapina.
- E il Campo dei miracoli dov'è? - domandò Pinocchio.
- È qui a due passi. -
Detto fatto traversarono la città e, usciti fuori dalle mura, si fermarono
in un campo solitario che, su per giú, somigliava a tutti gli altri
campi.
- Eccoci giunti - disse la Volpe al burattino. - Ora chinati giú a terra,
scava con le mani una piccola buca nel campo, e mettici dentro le monete
d'oro. -
Pinocchio obbedí. Scavò la buca, ci pose le quattro monete d'oro che
gli erano rimaste: e dopo ricoprí la buca con un po' di terra.
- Ora poi - disse la Volpe - va' alla gora qui vicina, prendi una secchia
d'acqua e annaffia il terreno dove hai seminato. -
Pinocchio andò alla gora, e perché non aveva lí per lí una secchia,
si levò di piedi una ciabatta e, riempitala d'acqua, annaffiò la terra
che copriva la buca. Poi domandò:
- C'è altro da fare?
- Nient'altro - rispose la Volpe. - Ora possiamo andar via. Tu poi ritorna
qui fra una ventina di minuti, e troverai l'arboscello già spuntato
dal suolo e coi rami tutti carichi di monete. -
Il povero burattino, fuori di sé dalla gran contentezza, ringraziò mille
volte la Volpe e il Gatto, e promise loro un bellissimo regalo.
- Noi non vogliamo regali - risposero que' due malanni. - A noi ci basta
di averti insegnato il modo di arricchire senza durar fatica, e siamo
contenti come pasque. -
Ciò detto salutarono Pinocchio, e augurandogli una buona raccolta, se
ne andarono per i fatti loro.
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XIX
Pinocchio
è derubato delle sue monete d'oro, e per gastigo, si busca quattro mesi
di prigione.
Il burattino, ritornato in città,
cominciò a contare i minuti a uno a uno; e, quando gli parve che fosse
l'ora, riprese subito la strada che menava al Campo dei miracoli.
E mentre camminava con passo frettoloso, il cuore gli batteva forte
e gli faceva tic, tac, tic, tac, come un orologio da sala, quando corre
davvero. E intanto pensava dentro di sé:
"E se invece di mille monete, ne trovassi su i rami dell'albero
duemila?... E se invece di duemila, ne trovassi cinquemila? e se invece
di cinquemila, ne trovassi centomila? Oh che bel signore, allora, che
diventerei!... Vorrei avere un bel palazzo, mille cavallini di legno
e mille scuderie, per potermi baloccare, una cantina di rosoli e di
alchermes, e una libreria tutta piena di canditi, di torte, di panattoni,
di mandorlati e di cialdoni colla panna".
Cosí fantasticando, giunse in vicinanza del campo, e lí si fermò a guardare
se per caso avesse potuto scorgere qualche albero coi rami carichi di
monete: ma non vide nulla. Fece altri cento passi in avanti, e nulla:
entrò sul campo... andò proprio su quella piccola buca, dove aveva sotterrato
i suoi zecchini, e nulla. Allora diventò pensieroso e, dimenticando
le regole del Galateo e della buona creanza, tirò fuori una mano di
tasca e si dètte una lunghissima grattatina di capo.
In quel mentre sentí fischiarsi negli orecchi una gran risata: voltatosi
in su, vide sopra un albero un grosso Pappagallo che si spollinava le
poche penne che aveva addosso.
- Perché ridi? - gli domandò Pinocchio con voce di bizza.
- Rido, perché nello spollinarmi mi sono fatto il solletico sotto le
ali. -
Il burattino non rispose. Andò alla gora e riempita d'acqua la solita
ciabatta, si pose novamente ad annaffiare la terra, che ricopriva le
monete d'oro.
Quand'ecco che un'altra risata, anche piú impertinente della prima,
si fece sentire nella solitudine silenziosa di quel campo.
- Insomma - gridò Pinocchio, arrabbiandosi - si può sapere, Pappagallo
mal educato, di che cosa ridi?
- Rido di quei barbagianni, che credono a tutte le scioccherie e che
si lasciano trappolare da chi è piú furbo di loro.
- Parli forse di me?
- Sí, parlo di te, povero Pinocchio; di te che sei cosí dolce di sale
da credere che i denari si possano seminare e raccogliere nei campi,
come si seminano i fagiuoli e le zucche. Anch'io l'ho creduto una volta,
e oggi ne porto le pene. Oggi (ma troppo tardi!) mi son dovuto persuadere
che per mettere insieme onestamente pochi soldi bisogna saperseli guadagnare
o col lavoro delle proprie mani o coll'ingegno della propria testa.
- Non ti capisco - disse il burattino, che già cominciava a tremare
dalla paura.
- Pazienza! Mi spiegherò meglio - soggiunse il Pappagallo. - Sappi dunque
che, mentre tu eri in città, la Volpe e il Gatto sono tornati in questo
campo: hanno preso le monete d'oro sotterrate, e poi sono fuggiti come
il vento. E ora chi li raggiunge, è bravo! -
Pinocchio restò a bocca aperta, e non volendo credere alle parole del
Pappagallo, cominciò colle mani e colle unghie a scavare il terreno
che aveva annaffiato. E scava, scava, scava, fece una buca cosí profonda,
che ci sarebbe entrato per ritto un pagliaio: ma le monete non c'erano
piú.
Preso allora dalla disperazione, tornò di corsa in città e andò difilato
in tribunale, per denunziare al giudice i due malandrini, che lo avevano
derubato.
Il giudice era uno scimmione della razza dei Gorilla: un vecchio scimmione
rispettabile per la sua grave età, per la sua barba bianca e specialmente
per i suoi occhiali d'oro, senza vetri, che era costretto a portare
continuamente, a motivo d'una flussione d'occhi, che lo tormentava da
parecchi anni.
Pinocchio, alla presenza del giudice, raccontò per filo e per segno
l'iniqua frode, di cui era stato vittima; dètte il nome, il cognome
e i connotati dei malandrini, e finí chiedendo giustizia.
Il giudice lo ascoltò con molta benignità; prese vivissima parte al
racconto: s'intenerí, si commosse: e quando il burattino non ebbe piú
nulla da dire, allungò la mano e sonò il campanello.
A quella scampanellata comparvero subito due can mastini vestiti da
giandarmi.
Allora il giudice, accennando Pinocchio ai giandarmi, disse loro:
- Quel povero diavolo è stato derubato di quattro monete d'oro: pigliatelo
dunque, e mettetelo subito in prigione. -
Il burattino, sentendosi dare questa sentenza fra capo e collo, rimase
di princisbecco e voleva protestare: ma i giandarmi, a scanso di perditempi
inutili, gli tapparono la bocca e lo condussero in gattabuia.
E lí v'ebbe a rimanere quattro mesi: quattro lunghissimi mesi: e vi
sarebbe rimasto anche di piú se non si fosse dato un caso fortunatissimo.
Perché bisogna sapere che il giovane Imperatore che regnava nella città
di Acchiappa-citrulli, avendo riportato una bella vittoria contro i
suoi nemici, ordinò grandi feste pubbliche, luminarie, fuochi artificiali,
corse di barberi e di velocipedi, e in segno di maggiore esultanza,
volle che fossero aperte anche le carceri e mandati fuori tutti i malandrini.
- Se escono di prigione gli altri, voglio uscire anch'io - disse Pinocchio
al carceriere.
- Voi no, - rispose il carceriere - perché voi non siete del bel numero...
- Domando scusa; - replicò Pinocchio - sono un malandrino anch'io.
- In questo caso avete mille ragioni - disse il carceriere; e levandosi
il berretto rispettosamente e salutandolo, gli aprí le porte della prigione
e lo lasciò scappare.
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XX
Liberato
dalla prigione, si avvia per tornare a casa della Fata; ma lungo la
strada trova un serpente orribile, e poi rimane preso alla tagliuola.
Figuratevi l'allegrezza di Pinocchio
quando si sentí libero. Senza stare a dire che è e che non è, uscí subito
fuori della città e riprese la strada, che doveva ricondurlo alla Casina
della Fata.
A cagione del tempo piovigginoso, la strada era diventata tutta un pantano
e ci si andava fino a mezza gamba. Ma il burattino non se ne dava per
inteso. Tormentato dalla passione di rivedere il suo babbo e la sua
sorellina dai capelli turchini, correva a salti come un can levriero,
e nel correre le pillacchere gli schizzavano fin sopra il berretto.
Intanto andava dicendo fra sé e sé: "Quante disgrazie mi sono accadute...
E me le merito! perché io sono un burattino testardo e piccoso... e
voglio far sempre tutte le cose a modo mio, senza dar retta a quelli
che mi voglion bene e che hanno mille volte piú giudizio di me!... Ma
da questa volta in là, faccio proponimento di cambiar vita e di diventare
un ragazzo ammodo e ubbidiente... Tanto ormai ho bell'e visto che i
ragazzi, a essere disubbidienti, ci scapitano sempre e non ne infilano
mai una per il su' verso. E il mio babbo mi avrà aspettato?... Ce lo
troverò a casa della Fata? È tanto tempo, pover'uomo, che non lo vedo
piú, che mi struggo di fargli mille carezze e di finirlo dai baci! E
la Fata mi perdonerà la brutta azione che le ho fatta?... E pensare
che ho ricevuto da lei tante attenzioni e tante cure amorose... e pensare
che se oggi son sempre vivo, lo debbo a lei!... Ma si può dare un ragazzo
piú ingrato e piú senza cuore di me?..."
Nel tempo che diceva cosí, si fermò tutt'a un tratto spaventato, e fece
quattro passi indietro.
Che cosa aveva veduto?
Aveva veduto un grosso Serpente, disteso attraverso alla strada, che
aveva la pelle verde, gli occhi di fuoco e la coda appuntata, che gli
fumava come una cappa di camino.
Impossibile immaginarsi la paura del burattino: il quale, allontanatosi
piú di mezzo chilometro, si mise a sedere sopra un monticello di sassi,
aspettando che il Serpente se ne andasse una buona volta per i fatti
suoi e lasciasse libero il passo della strada.
Aspettò un'ora; due ore; tre ore: ma il Serpente era sempre là, e, anche
di lontano, si vedeva il rosseggiare de' suoi occhi di fuoco e la colonna
di fumo che gli usciva dalla punta della coda.
Allora Pinocchio, figurandosi di aver coraggio, si avvicinò a pochi
passi di distanza, e facendo una vocina dolce, insinuante e sottile,
disse al Serpente:
- Scusi, signor Serpente, che mi farebbe il piacere di tirarsi un pochino
da una parte, tanto da lasciarmi passare? -
Fu lo stesso che dire al muro. Nessuno si mosse.
Allora riprese colla solita vocina:
- Deve sapere, signor Serpente, che io vado a casa, dove c'è il mio
babbo che mi aspetta e che è tanto tempo che non lo vedo piú!... Si
contenta dunque che io seguiti per la mia strada? -
Aspettò un segno di risposta a quella dimanda: ma la risposta non venne:
anzi il Serpente, che fin allora pareva arzillo e pieno di vita, diventò
immobile e quasi irrigidito. Gli occhi gli si chiusero e la coda gli
smesse di fumare.
- Che sia morto davvero?... - disse Pinocchio, dandosi una fregatina
di mani dalla gran contentezza; e senza mettere tempo in mezzo, fece
l'atto di scavalcarlo, per passare dall'altra parte della strada. Ma
non aveva ancora finito di alzare la gamba, che il Serpente si rizzò
all'improvviso come una molla scattata: e il burattino, nel tirarsi
indietro spaventato, inciampò e cadde per terra.
E per l'appunto cadde cosí male, che restò col capo conficcato nel fango
della strada e con le gambe ritte su in aria.
Alla vista di quel burattino, che sgambettava a capo fitto con una velocità
incredibile, il Serpente fu preso da una tal convulsione di risa, che
ridi, ridi, ridi, alla fine, dallo sforzo del troppo ridere, gli si
strappò una vena sul petto: e quella volta morí davvero.
Allora Pinocchio ricominciò a correre per arrivare a casa della Fata
avanti che si facesse buio. Ma lungo la strada, non potendo piú reggere
ai morsi terribili della fame, saltò in un campo coll'intenzione di
cogliere poche ciocche d'uva moscadella. Non l'avesse mai fatto!
Appena giunto sotto la vite, crac... sentí stringersi le gambe da due
ferri taglienti, che gli fecero vedere quante stelle c'erano in cielo.
Il povero burattino era rimasto preso a una tagliuola appostata là da
alcuni contadini per beccarvi alcune grosse faine, che erano il flagello
di tutti i pollai del vicinato.
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XXI
Pinocchio
è preso da un contadino, il quale lo costringe a far da can di guardia
a un pollajo.
Pinocchio, come potete figurarvelo,
si dètte a piangere, a strillare, a raccomandarsi: ma erano pianti e
grida inutili, perché lí all'intorno non si vedevano case e dalla strada
non passava anima viva.
Intanto si fece notte.
Un po' per lo spasimo della tagliuola che gli segava gli stinchi, e
un po' per la paura di trovarsi solo e al buio in mezzo a quei campi,
il burattino principiava quasi a svenirsi; quando a un tratto, vedendosi
passare una lucciola di sul capo, la chiamò e le disse:
- O Lucciolina, mi faresti la carità di liberarmi da questo supplizio?...
- Povero figliuolo! - replicò la Lucciola, fermandosi impietosita a
guardarlo. - Come mai sei rimasto colle gambe attanagliate fra codesti
ferri arrotati?
- Sono entrato nel campo per cogliere due grappoli di quest'uva moscadella,
e...
- Ma l'uva era tua?
- No...
- E allora chi t'ha insegnato a portar via la roba degli altri?...
- Avevo fame...
- La fame, ragazzo mio, non è una buona ragione per potersi appropriare
la roba che non è nostra...
- È vero, è vero! - gridò Pinocchio piangendo - ma un'altra volta non
lo farò piú. -
A questo punto il dialogo fu interrotto da un piccolissimo rumore di
passi, che si avvicinavano. Era il padrone del campo che veniva in punta
di piedi a vedere se qualcuna di quelle faine, che gli mangiavano di
nottetempo i polli, fosse rimasta presa al trabocchetto della tagliuola.
E la sua maraviglia fu grandissima quando, tirata fuori la lanterna
di sotto al pastrano, s'accòrse che, invece di una faina, c'era rimasto
preso un ragazzo.
- Ah, ladracchiolo! - disse il contadino incollerito - dunque sei tu
che mi porti via le galline?
- Io no, io no! - gridò Pinocchio, singhiozzando. - Io sono entrato
nel campo per prendere soltanto due grappoli d'uva!
- Chi ruba l'uva è capacissimo di rubare anche i polli. Lascia fare
a me, che ti darò una lezione da ricordartene per un pezzo. -
E aperta la tagliuola, afferrò il burattino per la collottola e lo portò
di peso fino a casa, come si porterebbe un agnellino di latte.
Arrivato che fu sull'aia dinanzi alla casa, lo scaraventò in terra:
e tenendogli un piede sul collo, gli disse:
- Oramai è tardi e voglio andare a letto. I nostri conti li aggiusteremo
domani. Intanto, siccome oggi m'è morto il cane che mi faceva la guardia
di notte, tu prenderai subito il suo posto. Tu mi farai da cane di guardia.
-
Detto fatto, gl'infilò al collo un grosso collare tutto coperto di spunzoni
di ottone, e glielo strinse in modo, da non poterselo levare passandoci
la testa di dentro. Al collare c'era attaccata una lunga catenella di
ferro: e la catenella era fissata nel muro.
- Se questa notte - disse il contadino - cominciasse a piovere, tu puoi
andare a cuccia in quel casotto di legno, dove c'è sempre la paglia
che ha servito di letto per quattr'anni al mio povero cane. E se per
disgrazia venissero i ladri, ricordati di stare a orecchi ritti e di
abbaiare. -
Dopo quest'ultimo avvertimento, il contadino entrò in casa chiudendo
la porta con tanto di catenaccio: e il povero Pinocchio rimase accovacciato
sull'aia piú morto che vivo, a motivo del freddo, della fame e della
paura. E di tanto in tanto cacciandosi rabbiosamente le mani dentro
al collare, che gli serrava la gola, diceva piangendo:
- Mi sta bene!... Pur troppo mi sta bene! Ho voluto fare lo svogliato,
il vagabondo... ho voluto dar retta ai cattivi compagni, e per questo
la fortuna mi perseguita sempre. Se fossi stato un ragazzino per bene,
come ce n'è tanti; se avessi avuto voglia di studiare e di lavorare,
se fossi rimasto in casa col mio povero babbo, a quest'ora non mi troverei
qui, in mezzo ai campi, a fare il cane di guardia alla casa di un contadino.
Oh se potessi rinascere un'altra volta! Ma oramai è tardi, e ci vuol
pazienza!... -
Fatto questo piccolo sfogo, che gli venne proprio dal cuore, entrò dentro
il casotto e si addormentò.
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XXII
Pinocchio
scuopre i ladri, e in ricompensa di essere stato fedele vien posto in
libertà.
Ed era già piú di due ore che
dormiva saporitamente; quando verso la mezzanotte fu svegliato da un
bisbiglio e da un pissi-pissi di vocine strane, che gli parve di sentire
nell'aia. Messa fuori la punta del naso dalla buca del casotto, vide
riunite a consiglio quattro bestiuole di pelame scuro, che parevano
gatti. Ma non erano gatti: erano faine, animaletti carnivori, ghiottissimi
specialmente d'uova e di pollastrine giovani. Una di queste faine, staccandosi
dalle sue compagne, andò alla buca del casotto e disse sottovoce:
- Buona sera, Melampo.
- Io non mi chiamo Melampo - rispose il burattino.
- O dunque chi sei?
- Io sono Pinocchio.
- E che cosa fai costí?
- Faccio il cane di guardia.
- O Melampo dov'è? dov'è il vecchio cane, che stava in questo casotto?
- È morto questa mattina.
- Morto? Povera bestia!... Era tanto buono!... Ma giudicandoti dalla
fisonomia, anche te mi sembri un cane di garbo.
- Domando scusa, io non sono un cane!...
- O chi sei?
- Io sono un burattino.
- E fai da cane di guardia?
- Pur troppo: per mia punizione!...
- Ebbene, io ti propongo gli stessi patti, che avevo col defunto Melampo:
e sarai contento.
- E questi patti sarebbero?
- Noi verremo una volta la settimana, come per il passato, a visitare
di notte questo pollaio, e porteremo via otto galline. Di queste galline,
sette le mangeremo noi, e una la daremo a te, a condizione, s'intende
bene, che tu faccia finta di dormire e non ti venga mai l'estro di abbaiare
e di svegliare il contadino.
- E Melampo faceva proprio cosí? - domandò Pinocchio.
- Faceva cosí, e fra noi e lui, siamo andati sempre d'accordo. Dormi
dunque tranquillamente, e stai sicuro che prima di partire di qui, ti
lasceremo sul casotto una gallina bell'e pelata per la colazione di
domani. Ci siamo intesi bene?
- Anche troppo bene!... - rispose Pinocchio: e tentennò il capo in un
certo modo minaccioso, come se avesse voluto dire: - Fra poco ci riparleremo!...
-
Quando le quattro faine si credettero sicure del fatto loro, andarono
difilato al pollaio, che rimaneva appunto vicinissimo al casotto del
cane; e aperta a furia di denti e di unghioli la porticina di legno,
che ne chiudeva l'entrata, vi sgusciarono dentro, una dopo l'altra.
Ma non erano ancora finite d'entrare, che sentirono la porticina richiudersi
con grandissima violenza.
Quello che l'aveva richiusa era Pinocchio; il quale, non contento di
averla richiusa, vi posò davanti per maggior sicurezza una grossa pietra,
a guisa di puntello.
E poi cominciò ad abbaiare: e, abbaiando proprio come se fosse un cane
di guardia, faceva colla voce: bú-bú-bú-bú.
A quell'abbaiata, il contadino saltò il letto, e preso il fucile e affacciatosi
alla finestra, domandò:
- Che c'è di nuovo?
- Ci sono i ladri! - rispose Pinocchio.
- Dove sono?
- Nel pollaio.
- Ora scendo subito. -
E difatti, in men che si dice amen, il contadino scese: entrò di corsa
nel pollaio, e dopo avere acchiappate e rinchiuse in un sacco le quattro
faine, disse loro con accento di vera contentezza:
- Alla fine siete cascate nelle mie mani! Potrei punirvi, ma sí vil
non sono! Mi contenterò, invece, di portarvi domani all'oste del vicino
paese, il quale vi spellerà e vi cucinerà a uso lepre dolce e forte.
È un onore che non vi meritate, ma gli uomini generosi, come me, non
badano a queste piccolezze!... -
Quindi, avvicinatosi a Pinocchio, cominciò a fargli molte carezze, e,
fra le altre cose, gli domandò:
- Com'hai fatto a scoprire il complotto di queste quattro ladroncelle?
E dire che Melampo, il mio fido Melampo, non s'era mai accorto di nulla!...
-
Il burattino, allora, avrebbe potuto raccontare quel che sapeva; avrebbe
potuto, cioè, raccontare i patti vergognosi che passavano fra il cane
e le faine: ma ricordatosi che il cane era morto, pensò subito dentro
di sé: - A che serve accusare i morti?... I morti son morti, e la miglior
cosa che si possa fare è quella di lasciarli in pace!...
- All'arrivo delle faine sull'aia, eri sveglio o dormivi? - continuò
a chiedergli il contadino.
- Dormivo - rispose Pinocchio - ma le faine mi hanno svegliato coi loro
chiacchiericci, e una è venuta fin qui al casotto per dirmi: "Se
prometti di non abbaiare, e di non svegliare il padrone, noi ti regaleremo
una pollastra bell'e pelata!..." Capite, eh? Avere la sfacciataggine
di fare a me una simile proposta! Perché bisogna sapere che io sono
un burattino, che avrò tutti i difetti di questo mondo: ma non avrò
mai quello di star di balla e di reggere il sacco alla gente disonesta!
-
- Bravo ragazzo! - gridò il contadino, battendogli sur una spalla. -
Cotesti sentimenti ti fanno onore: e per provarti la mia grande soddisfazione,
ti lascio libero fin d'ora di tornare a casa. -
E gli levò il collare da cane.
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XXIII
Pinocchio
piange la morte della bella Bambina dai capelli turchini:
poi trova un Colombo, che lo porta sulla riva del mare, e lí si getta
nell'acqua per andare in aiuto del suo babbo Geppetto.
Appena Pinocchio non sentí piú
il peso durissimo e umiliante di quel collare intorno al collo, si pose
a scappare attraverso ai campi, e non si fermò un solo minuto finché
non ebbe raggiunta la strada maestra, che doveva ricondurlo alla Casina
della Fata.
Arrivato sulla strada maestra, si voltò in giú a guardare nella sottoposta
pianura, e vide benissimo, a occhio nudo, il bosco, dove disgraziatamente
aveva incontrato la Volpe e il Gatto: vide, fra mezzo agli alberi, inalzarsi
la cima di quella Quercia grande, alla quale era stato appeso ciondoloni
per il collo: ma, guarda di qui, guarda di là, non gli fu possibile
di vedere la piccola casa della bella Bambina dai capelli turchini.
Allora ebbe una specie di tristo presentimento, e datosi a correre con
quanta forza gli rimaneva nelle gambe, si trovò in pochi minuti sul
prato, dove sorgeva una volta la Casina bianca. Ma la Casina bianca
non c'era piú. C'era, invece, una piccola pietra di marmo, sulla quale
si leggevano in carattere stampatello queste dolorose parole:
QUI GIACE
LA BAMBINA DAI CAPELLI TURCHINI
MORTA DI DOLORE
PER ESSERE STATA ABBANDONATA DAL SUO
FRATELLINO PINOCCHIO
Come rimanesse il burattino,
quand'ebbe compitate alla peggio quelle parole, lo lascio pensare a
voi. Cadde bocconi a terra, e coprendo di mille baci quel marmo mortuario,
dètte in un grande scoppio di pianto. Pianse tutta la notte, e la mattina
dopo, sul far del giorno, piangeva sempre, sebbene negli occhi non avesse
piú lacrime: e le sue grida e i suoi lamenti erano cosí strazianti ed
acuti, che tutte le colline all'intorno ne ripetevano l'eco.
E piangendo diceva:
"O Fatina mia, perché sei morta?... perché, invece di te, non sono
morto io, che sono tanto cattivo, mentre tu eri tanto buona?... E il
mio babbo dove sarà? O Fatina mia, dimmi dove posso trovarlo, ché voglio
stare sempre con lui, e non lasciarlo piú! piú! piú!... O Fatina mia,
dimmi che non è vero che sei morta!... Se davvero mi vuoi bene... se
vuoi bene al tuo fratellino, rivivisci... ritorna viva come prima!...
Non ti dispiace a vedermi solo, abbandonato da tutti?... Se arrivano
gli assassini, mi attaccheranno daccapo al ramo dell'albero... e allora
morirò per sempre. Che vuoi che io faccia qui solo in questo mondo?
Ora che ho perduto te e il mio babbo, chi mi darà da mangiare? Dove
anderò a dormire la notte? Chi mi farà la giacchettina nuova? Oh! sarebbe
meglio, cento volte meglio, che morissi anch'io! Sí, voglio morire!
ih! ih! ih!..."
E mentre si disperava a questo modo, fece l'atto di volersi strappare
i capelli: ma i suoi capelli, essendo di legno, non poté nemmeno levarsi
il gusto di ficcarci dentro le dita.
Intanto passò su per aria un grosso Colombo, il quale soffermatosi,
a ali distese, gli gridò da una grande altezza:
- Dimmi, bambino, che cosa fai costaggiú?
- Non lo vedi? piango! - disse Pinocchio alzando il capo verso quella
voce e strofinandosi gli occhi colla manica della giacchetta.
- Dimmi - soggiunse allora il Colombo - non conosci per caso fra i tuoi
compagni, un burattino, che ha nome Pinocchio?
- Pinocchio?... Hai detto Pinocchio? - ripeté il burattino saltando
subito in piedi. - Pinocchio sono io! -
Il Colombo, a questa risposta, si calò velocemente e venne a posarsi
a terra. Era piú grosso di un tacchino.
- Conoscerai dunque anche Geppetto! - domandò al burattino.
- Se lo conosco! È il mio povero babbo! Ti ha forse parlato di me? Mi
conduci da lui? ma è sempre vivo? rispondimi per carità; è sempre vivo?
- L'ho lasciato tre giorni fa sulla spiaggia del mare.
- Che cosa faceva?
- Si fabbricava da sé una piccola barchetta, per traversare l'Oceano.
Quel pover'uomo sono piú di quattro mesi che gira per il mondo in cerca
di te: e non avendoti potuto mai trovare, ora si è messo in capo di
cercarti nei paesi lontani del nuovo mondo.
- Quanto c'è di qui alla spiaggia? - domandò Pinocchio con ansia affannosa.
- Piú di mille chilometri.
- Mille chilometri? O Colombo mio, che bella cosa potessi avere le tue
ali!...
- Se vuoi venire, ti ci porto io.
- Come?
- A cavallo sulla mia groppa. Sei peso dimolto?
- Peso? tutt'altro! Son leggiero come una foglia. -
E lí, senza stare a dir altro, Pinocchio saltò sulla groppa al Colombo;
e messa una gamba di qui e l'altra di là, come fanno i cavallerizzi,
gridò tutto contento: "Galoppa, galoppa, cavallino, ché mi preme
di arrivar presto!..."
Il Colombo prese l'aíre e in pochi minuti arrivò col volo tanto in alto,
che toccava quasi le nuvole. Giunto a quell'altezza straordinaria, il
burattino ebbe la curiosità di voltarsi in giú a guardare: e fu preso
da tanta paura e da tali giracapi che, per evitare il pericolo di venir
di sotto, si avviticchiò colle braccia, stretto stretto, al collo della
sua piumata cavalcatura.
Volarono tutto il giorno. Sul far della sera, il Colombo disse:
- Ho una gran sete!
- E io una gran fame! - soggiunse Pinocchio.
- Fermiamoci a questa colombaia pochi minuti; e dopo ci rimetteremo
in viaggio, per essere domattina all'alba sulla spiaggia del mare. -
Entrarono in una colombaia deserta, dove c'era soltanto una catinella
piena d'acqua e un cestino ricolmo di vecce.
Il burattino, in tempo di vita sua, non aveva mai potuto patire le vecce:
a sentir lui, gli facevano nausea, gli rivoltavano lo stomaco: ma quella
sera ne mangiò a strippapelle, e quando l'ebbe quasi finite, si voltò
al Colombo e gli disse:
- Non avrei mai creduto che le vecce fossero cosí buone!
- Bisogna persuadersi, ragazzo mio, - replicò il Colombo - che quando
la fame dice davvero e non c'è altro da mangiare, anche le vecce diventano
squisite! La fame non ha capricci né ghiottonerie! -
Fatto alla svelta un piccolo spuntino, si riposero in viaggio, e via!
La mattina dopo arrivarono sulla spiaggia del mare.
Il Colombo posò a terra Pinocchio, e non volendo nemmeno la seccatura
di sentirsi ringraziare per aver fatto una buona azione, riprese subito
il volo e sparí.
La spiaggia era piena di gente che urlava e gesticolava, guardando verso
il mare.
- Che cos'è accaduto? - domandò Pinocchio a una vecchina.
- Gli è accaduto che un povero babbo, avendo perduto il figliuolo, gli
è voluto entrare in una barchetta per andare a cercarlo di là dal mare;
e il mare oggi è molto cattivo e la barchetta sta per andare sott'acqua...
- Dov'è la barchetta?
- Eccola laggiú, diritta al mio dito - disse la vecchia, accennando
una piccola barca che, veduta a quella distanza, pareva un guscio di
noce con dentro un omino piccino piccino.
Pinocchio appuntò gli occhi da quella parte, e dopo aver guardato attentamente,
cacciò un urlo acutissimo gridando:
- Gli è il mi' babbo! gli è il mi' babbo! -
Intanto la barchetta, sbattuta dall'infuriare dell'onde, ora spariva
fra i grossi cavalloni, ora tornava a galleggiare: e Pinocchio, ritto
sulla punta di un alto scoglio, non finiva piú dal chiamare il suo babbo
per nome, e dal fargli molti segnali colle mani e col moccichino da
naso e perfino col berretto che aveva in capo.
E parve che Geppetto, sebbene fosse molto lontano dalla spiaggia, riconoscesse
il figliuolo, perché si levò il berretto anche lui e lo salutò e, a
furia di gesti, gli fece capire che sarebbe tornato volentieri indietro;
ma il mare era tanto grosso, che gl'impediva di lavorare col remo e
di potersi avvicinare alla terra.
Tutt'a un tratto venne una terribile ondata, e la barca sparí. Aspettarono
che la barca tornasse a galla; ma la barca non si vide piú tornare.
- Pover'omo - dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla spiaggia;
e brontolando sottovoce una preghiera, si mossero per tornarsene alle
loro case.
Quand'ecco che udirono un urlo disperato, e voltandosi indietro, videro
un ragazzetto che, di vetta a uno scoglio, si gettava in mare gridando:
- Voglio salvare il mio babbo! -
Pinocchio, essendo tutto di legno, galleggiava facilmente e nuotava
come un pesce. Ora si vedeva sparire sott'acqua, portato dall'impeto
dei flutti, ora riappariva fuori con una gamba o con un braccio, a grandissima
distanza dalla terra. Alla fine lo persero d'occhio e non lo videro
piú.
- Povero ragazzo! - dissero allora i pescatori, che erano raccolti sulla
spiaggia; e brontolando sottovoce una preghiera, tornarono alle loro
case.
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XXIV
Pinocchio
arriva all'isola delle "Api industriose" e ritrova la Fata.
Pinocchio, animato dalla speranza
di arrivare in tempo a dare aiuto al suo povero babbo, nuotò tutta quanta
la notte.
E che orribile nottata fu quella! Diluviò, grandinò, tuonò spaventosamente
e con certi lampi, che pareva di giorno.
Sul far del mattino, gli riuscí di vedere poco distante una lunga striscia
di terra. Era un'isola in mezzo al mare.
Allora fece di tutto per arrivare a quella spiaggia: ma inutilmente.
Le onde, rincorrendosi e accavallandosi, se lo abballottavano fra di
loro, come se fosse stato un fuscello o un filo di paglia. Alla fine,
e per sua buona fortuna, venne un'ondata tanto prepotente e impetuosa,
che lo scaraventò di peso sulla rena del lido.
Il colpo fu cosí forte che, battendo in terra, gli crocchiarono tutte
le costole e tutte le congiunture: ma si consolò subito col dire:
- Anche per questa volta l'ho scampata bella! -
Intanto a poco a poco il cielo si rasserenò; il sole apparve fuori in
tutto il suo splendore, e il mare diventò tranquillissimo e buono come
un olio.
Allora il burattino distese i suoi panni al sole per rasciugarli, e
si pose a guardare di qua e di là se per caso avesse potuto scorgere
su quella immensa spianata d'acqua una piccola barchetta con un omino
dentro. Ma dopo aver guardato ben bene, non vide altro dinanzi a sé
che cielo, mare e qualche vela di bastimento, ma cosí lontana lontana,
che pareva una mosca.
- Sapessi almeno come si chiama quest'isola! - andava dicendo. - Sapessi
almeno se quest'isola è abitata da gente di garbo, voglio dire da gente
che non abbia il vizio di attaccare i ragazzi ai rami degli alberi!
ma a chi mai posso domandarlo? a chi, se non c'è nessuno?... -
Quest'idea di trovarsi solo, solo, solo, in mezzo a quel gran paese
disabitato, gli messe addosso tanta malinconia, che stava lí lí per
piangere; quando tutt'a un tratto vide passare, a poca distanza dalla
riva, un grosso pesce, che se ne andava tranquillamente per i fatti
suoi, con tutta la testa fuori dell'acqua.
Non sapendo come chiamarlo per nome, il burattino gli gridò a voce alta,
per farsi sentire:
- Ehi, signor pesce, che mi permetterebbe una parola?
- Anche due - rispose il pesce, il quale era un Delfino cosí garbato,
come se ne trovano pochi in tutti i mari del mondo.
- Mi farebbe il piacere di dirmi se in quest'isola vi sono dei paesi
dove si possa mangiare, senza pericolo d'esser mangiati?
- Ve ne sono sicuro - rispose il Delfino. - Anzi, ne troverai uno poco
lontano di qui.
- E che strada si fa per andarvi?
- Devi prendere quella viottola là, a mancina, e camminare sempre diritto
al naso. Non puoi sbagliare.
- Mi dica un'altra cosa. Lei che passeggia tutto il giorno e tutta la
notte per il mare, non avrebbe incontrato per caso una piccola barchettina
con dentro il mi' babbo?
- E chi è il tuo babbo?
- Gli è il più babbo buono del mondo, come io sono il figliuolo più
cattivo che si possa dare.
- Colla burrasca che ha fatto questa notte - rispose il Delfino - la
barchetta sarà andata sott'acqua.
- E il mio babbo?
- A quest'ora l'avrà inghiottito il terribile pesce-cane, che da qualche
giorno è venuto a spargere lo sterminio e la desolazione nelle nostre
acque.
- Che è grosso dimolto questo pesce-cane? - domandò Pinocchio, che di
già cominciava a tremare dalla paura.
- Se gli è grosso!... - replicò il Delfino. - Perché tu possa fartene
un'idea, ti dirò che è piú grosso di un casamento di cinque piani, ed
ha una boccaccia cosí larga e profonda, che ci passerebbe comodamente
tutto il treno della strada ferrata colla macchina accesa.
- Mamma mia! - gridò spaventato il burattino; e rivestitosi in fretta
e furia, si voltò al Delfino e gli disse:
- Arrivedella, signor pesce: scusi tanto l'incomodo e mille grazie della
sua garbatezza. -
Detto ciò, prese subito la viottola e cominciò a camminare di un passo
svelto: tanto svelto, che pareva quasi che corresse. E a ogni piú piccolo
rumore che sentiva, si voltava subito a guardare indietro, per la paura
di vedersi inseguire da quel terribile pesce-cane grosso come una casa
di cinque piani e con un treno della strada ferrata in bocca.
Dopo aver camminato piú di mezz'ora, arrivò a un piccolo paese detto
"il paese delle Api industriose". Le strade formicolavano
di persone che correvano di qua e di là per le loro faccende: tutti
lavoravano, tutti avevano qualche cosa da fare. Non si trovava un ozioso
o un vagabondo, nemmeno a cercarlo col lumicino.
- Ho capito; - disse subito quello svogliato di Pinocchio - questo paese
non è fatto per me! Io non son nato per lavorare! -
Intanto la fame lo tormentava; perché erano oramai passate ventiquattr'ore
che non aveva mangiato piú nulla; nemmeno una pietanza di vecce.
Che fare?
Non gli restavano che due modi per potersi sdigiunare: o chiedere un
po' di lavoro, o chiedere in elemosina un soldo o un boccon di pane.
A chiedere l'elemosina si vergognava: perché il suo babbo gli aveva
predicato sempre che l'elemosina hanno il diritto di chiederla solamente
i vecchi e gl'infermi. I veri poveri, in questo mondo, meritevoli di
assistenza e di compassione, non sono altro che quelli che, per ragione
d'età o di malattia, si trovano condannati a non potersi piú guadagnare
il pane col lavoro delle proprie mani. Tutti gli altri hanno l'obbligo
di lavorare: e se non lavorano e patiscono la fame, tanto peggio per
loro.
In quel frattempo, passò per la strada un uomo tutto sudato e trafelato,
il quale da sé solo tirava con gran fatica due carretti carichi di carbone.
Pinocchio, giudicandolo dalla fisonomia per un buon uomo, gli si accostò
e, abbassando gli occhi dalla vergogna, gli disse sottovoce:
- Mi fareste la carità di darmi un soldo, perché mi sento morir dalla
fame?
- Non un soldo solo - rispose il carbonaio - ma te ne do quattro, a
patto che tu m'aiuti a tirare fino a casa questi due carretti di carbone.
- Mi meraviglio! - rispose il burattino quasi offeso; - per vostra regola
io non ho fatto mai il somaro: io non ho mai tirato il carretto!
- Meglio per te! - rispose il carbonaio. - Allora, ragazzo mio, se ti
senti davvero morir dalla fame, mangia due belle fette della tua superbia,
e bada di non prendere un'indigestione. -
Dopo pochi minuti passò per la via un muratore, che portava sulle spalle
un corbello di calcina.
- Fareste, galantuomo, la carità d'un soldo a un povero ragazzo, che
sbadiglia dall'appetito?
- Volentieri; vieni con me a portar calcina - rispose il muratore -
e invece d'un soldo, te ne darò cinque.
- Ma la calcina è pesa - replicò Pinocchio - e io non voglio durar fatica.
- Se non vuoi durar fatica, allora, ragazzo mio, divertiti a sbadigliare,
e buon pro ti faccia. -
In men di mezz'ora passarono altre venti persone: e a tutte Pinocchio
chiese un po' d'elemosina, ma tutte gli risposero:
- Non ti vergogni? Invece di fare il bighellone per la strada, va' piuttosto
a cercarti un po' di lavoro, e impara a guadagnarti il pane! -
Finalmente passò una buona donnina che portava due brocche d'acqua.
- Vi contentate, buona donna, che io beva una sorsata d'acqua dalla
vostra brocca? - disse Pinocchio, che bruciava dall'arsione della sete.
- Bevi pure, ragazzo mio! - disse la donnina, posando le due brocche
in terra.
Quando Pinocchio ebbe bevuto come una spugna, borbottò a mezza voce,
asciugandosi la bocca:
- La sete me la son levata! Cosí mi potessi levar la fame!... -
La buona donnina, sentendo queste parole, soggiunse subito:
- Se mi aiuti a portare a casa una di queste brocche d'acqua, ti darò
un bel pezzo di pane. -
Pinocchio guardò la brocca e non rispose né sí né no.
- E insieme col pane ti darò un bel piatto di cavolfiore condito coll'olio
e coll'aceto - soggiunse la buona donna.
Pinocchio dètte un'altra occhiata alla brocca, e non rispose né sí né
no.
- E dopo il cavolfiore ti darò un bel confetto ripieno di rosolio. -
Alle seduzioni di quest'ultima ghiottoneria, Pinocchio non seppe piú
resistere, e fatto un animo risoluto, disse:
- Pazienza! vi porterò la brocca fino a casa! -
La brocca era molto pesa, e il burattino, non avendo forza da portarla
colle mani, si rassegnò a portarla in capo.
Arrivati a casa, la buona donnina fece sedere Pinocchio a una piccola
tavola apparecchiata, e gli pose davanti il pane, il cavolfiore condito
e il confetto.
Pinocchio non mangiò, ma diluviò. Il suo stomaco pareva un quartiere
rimasto vuoto e disabitato da cinque mesi.
Calmati a poco a poco i morsi rabbiosi della fame, allora alzò il capo
per ringraziare la sua benefattrice: ma non aveva ancora finito di fissarla
in volto, che cacciò un lunghissimo ohhh! di maraviglia, e rimase là
incantato, cogli occhi spalancati, colla forchetta per aria e colla
bocca piena di pane e di cavolfiore.
- Che cos'è mai tutta questa meraviglia? - disse ridendo la buona donna.
- Egli è... - rispose balbettando Pinocchio - egli è... egli è..., che
voi mi somigliate... voi mi rammentate... sí, sí, sí, la stessa voce...
gli stessi occhi... gli stessi capelli... sí, sí, sí... anche voi avete
i capelli turchini... come lei!... O Fatina mia!... o Fatina mia!...
ditemi che siete voi, proprio voi!... Non mi fate piú piangere! Se sapeste!
Ho pianto tanto, ho patito tanto!... -
E nel dir cosí, Pinocchio piangeva dirottamente, e gettatosi ginocchioni
per terra, abbracciava i ginocchi di quella donnina misteriosa.
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XXV
Pinocchio
promette alla Fata di esser buono e di studiare, perché è stufo di fare
il burattino e vuol diventare un bravo ragazzo.
In sulle prime, la buona donnina
cominciò col dire che lei non era la piccola Fata dai capelli turchini:
ma poi, vedendosi oramai scoperta e non volendo mandare piú in lungo
la commedia, finí per farsi riconoscere, e disse a Pinocchio:
- Birba d'un burattino! Come mai ti sei accorto che ero io?
- Gli è il gran bene che vi voglio, quello che me l'ha detto.
- Ti ricordi, eh? Mi lasciasti bambina, e ora mi ritrovi donna; tanto
donna, che potrei quasi farti da mamma.
- E io l'ho caro dimolto, perché cosí, invece di sorellina, vi chiamerò
la mia mamma. Gli è tanto tempo che mi struggo di avere una mamma come
tutti gli altri ragazzi!... Ma come avete fatto a crescere cosí presto?
- È un segreto.
- Insegnatemelo: vorrei crescere un poco anch'io. Non lo vedete? Sono
sempre rimasto alto come un soldo di cacio.
- Ma tu non puoi crescere - replicò la Fata.
- Perché?
- Perché i burattini non crescono mai. Nascono burattini, vivono burattini
e muoiono burattini.
- Oh! sono stufo di far sempre il burattino! - gridò Pinocchio, dandosi
uno scappellotto. - Sarebbe ora che diventassi anch'io un uomo...
- E lo diventerai, se saprai meritarlo...
- Davvero? E che posso fare per meritarmelo?
- Una cosa facilissima: avvezzarti a essere un ragazzino perbene.
- O che forse non sono?
- Tutt'altro! I ragazzi perbene sono ubbidienti, e tu invece...
- E io non ubbidisco mai.
- I ragazzi perbene prendono amore allo studio e al lavoro, e tu...
- E io, invece, faccio il bighellone e il vagabondo tutto l'anno.
- I ragazzi perbene dicono sempre la verità...
- E io sempre le bugie.
- I ragazzi perbene vanno volentieri alla scuola...
- E a me la scuola mi fa venire i dolori di corpo. Ma da oggi in poi
voglio mutar vita.
- Me lo prometti?
- Lo prometto. Voglio diventare un ragazzino perbene, e voglio essere
la consolazione del mio babbo... Dove sarà il mio povero babbo a quest'ora?
- Non lo so.
- Avrò mai la fortuna di poterlo rivedere e abbracciare?
- Credo di sí: anzi ne sono sicura. -
A questa risposta fu tale e tanta la contentezza di Pinocchio, che prese
le mani alla Fata e cominciò a baciargliele con tanta foga, che pareva
quasi fuori di sé. Poi, alzando il viso e guardandola amorosamente,
le domandò:
- Dimmi, mammina: dunque non è vero che tu sia morta?
- Par di no - rispose sorridendo la Fata.
- Se tu sapessi che dolore e che serratura alla gola che provai, quando
lessi qui giace...
- Lo so: ed è per questo che ti ho perdonato. La sincerità del tuo dolore
mi fece conoscere che tu avevi il cuore buono: e dai ragazzi buoni di
cuore, anche se sono un po' monelli e avvezzati male, c'è sempre da
sperar qualcosa: ossia, c'è sempre da sperare che rientrino sulla vera
strada. Ecco perché son venuta a cercarti fin qui. Io sarò la tua mamma...
- Oh! che bella cosa! - gridò Pinocchio saltando dall'allegrezza.
- Tu mi ubbidirai e farai sempre quello che ti dirò io.
- Volentieri, volentieri, volentieri!
- Fino da domani - soggiunse la Fata - tu comincerai coll'andare a scuola.
-
Pinocchio diventò subito un po' meno allegro.
- Poi sceglierai a tuo piacere un'arte o un mestiere... -
Pinocchio diventò serio.
- Che cosa brontoli fra i denti? - domandò la Fata con accento risentito.
- Dicevo... - mugolò il burattino a mezza voce - che oramai per andare
a scuola mi pare un po' tardi...
- Nossignore. Tieni a mente che per istruirsi e per imparare non è mai
tardi.
- Ma io non voglio fare né arti né mestieri...
- Perché?
- Perché a lavorare mi par fatica.
- Ragazzo mio, - disse la Fata - quelli che dicono cosí, finiscono quasi
sempre o in carcere o allo spedale. L'uomo, per tua regola, nasca ricco
o povero, è obbligato in questo mondo a far qualcosa, a occuparsi, a
lavorare. Guai a lasciarsi prendere dall'ozio! L'ozio è una bruttissima
malattia e bisogna guarirla subito, fin da bambini: se no, quando siamo
grandi, non si guarisce piú. -
Queste parole toccarono l'animo di Pinocchio, il quale rialzando vivacemente
la testa, disse alla Fata:
- Io studierò, io lavorerò, io farò tutto quello che mi dirai, perché,
insomma, la vita del burattino mi è venuta a noia, e voglio diventare
un ragazzo a tutti i costi. Me l'hai promesso, non è vero?
- Te l'ho promesso, e ora dipende da te. -
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XXVI
Pinocchio
va co' suoi compagni di scuola in riva al mare, per vedere il terribile
Pesce-cane.
Il giorno dopo Pinocchio andò
alla Scuola comunale.
Figuratevi quelle birbe di ragazzi, quando videro entrare nella loro
scuola un burattino! Fu una risata, che non finiva piú. Chi gli faceva
uno scherzo, chi un altro: chi gli levava il berretto di mano: chi gli
tirava il giubbettino di dietro; chi si provava a fargli coll'inchiostro
due grandi baffi sotto il naso, e chi si attentava perfino a legargli
dei fili ai piedi e alle mani, per farlo ballare.
Per un poco Pinocchio usò disinvoltura e tirò via; ma finalmente, sentendosi
scappar la pazienza, si rivolse a quelli che piú lo tafanavano e si
pigliavano gioco di lui, e disse loro a muso duro:
- Badate, ragazzi: io non son venuto qui per essere il vostro buffone.
Io rispetto gli altri e voglio esser rispettato.
- Bravo berlicche! Hai parlato come un libro stampato! - urlarono quei
monelli, buttandosi via dalle matte risate: e uno di loro, piú impertinente
degli altri, allungò la mano coll'idea di prendere il burattino per
la punta del naso.
Ma non fece a tempo: perché Pinocchio stese la gamba sotto la tavola
e gli consegnò una pedata negli stinchi.
- Ohi! che piedi duri! - urlò il ragazzo stropicciandosi il livido che
gli aveva fatto il burattino.
- E che gomiti!... anche piú duri dei piedi! - disse un altro che, per
i suoi scherzi sguaiati, s'era beccata una gomitata nello stomaco.
Fatto sta che dopo quel calcio e quella gomitata, Pinocchio acquistò
subito la stima e la simpatia di tutti i ragazzi di scuola: e tutti
gli facevano mille carezze e tutti gli volevano un ben dell'anima.
E anche il maestro se ne lodava, perché lo vedeva attento, studioso,
intelligente, sempre il primo a entrare nella scuola, sempre l'ultimo
a rizzarsi in piedi, a scuola finita.
Il solo difetto che avesse era quello di bazzicare troppi compagni:
e fra questi, c'erano molti monelli conosciutissimi per la loro poca
voglia di studiare e di farsi onore.
Il maestro lo avvertiva tutti i giorni, e anche la buona Fata non mancava
di dirgli e di ripetergli piú volte:
- Bada, Pinocchio! Quei tuoi compagnacci di scuola finiranno prima o
poi col farti perdere l'amore allo studio e, forse forse, col tirarti
addosso qualche grossa disgrazia.
- Non c'è pericolo! - rispondeva il burattino, facendo una spallucciata,
e toccandosi coll'indice in mezzo alla fronte, come per dire: "C'è
tanto giudizio qui dentro!"
Ora avvenne che un bel giorno, mentre camminava verso la scuola, incontrò
un branco dei soliti compagni, che, andandogli incontro, gli dissero:
- Sai la gran notizia?
- No.
- Qui nel mare vicino è arrivato un Pesce-cane, grosso come una montagna.
- Davvero?... Che sia quel medesimo Pesce-cane di quando affogò il mio
povero babbo?
- Noi andiamo alla spiaggia per vederlo. Vuoi venire anche tu?
- Io no: io voglio andare a scuola.
- Che t'importa della scuola? Alla scuola ci anderemo domani. Con una
lezione di piú o con una di meno, si rimane sempre gli stessi somari.
- E il maestro che dirà?
- Il maestro si lascia dire. È pagato apposta per brontolare tutti i
giorni.
- E la mia mamma?
- Le mamme non sanno mai nulla - risposero quei malanni.
- Sapete che cosa farò? - disse Pinocchio. - Il Pesce-cane voglio vederlo
per certe mie ragioni... ma anderò a vederlo dopo la scuola.
- Povero giucco! - ribatté uno del branco. - Che credi che un pesce
di quella grossezza voglia star lí a fare il comodo tuo? Appena s'è
annoiato, piglia il dirizzone per un'altra parte, e allora chi s'è visto
s'è visto.
- Quanto tempo ci vuole di qui alla spiaggia? - domandò il burattino.
- Fra un'ora, siamo bell'e andati e tornati.
- Dunque, via! e chi piú corre, è piú bravo! - gridò Pinocchio.
Dato cosí il segnale della partenza, quel branco di monelli, coi loro
libri e i loro quaderni sotto il braccio, si messero a correre attraverso
ai campi: e Pinocchio era sempre avanti a tutti: pareva che avesse le
ali ai piedi.
Di tanto in tanto, voltandosi indietro, canzonava i suoi compagni rimasti
a una bella distanza, e nel vederli ansanti, trafelati, polverosi e
con tanto di lingua fuori, se la rideva proprio di cuore. Lo sciagurato,
in quel momento, non sapeva a quali paure e a quali orribili disgrazie
andava incontro!...
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XXVII
Gran
combattimento fra Pinocchio e i suoi compagni: uno de' quali essendo
rimasto ferito, Pinocchio viene arrestato dai carabinieri.
Giunto che fu sulla spiaggia,
Pinocchio dètte subito una grande occhiata sul mare; ma non vide nessun
Pesce-cane. Il mare era tutto liscio come un gran cristallo da specchio.
- O il Pesce-cane dov'è? - domandò, voltandosi ai compagni.
- Sarà andato a far colazione - rispose uno di loro, ridendo.
- O si sarà buttato sul letto per fare un sonnellino - aggiunse un altro,
ridendo piú forte che mai.
Da quelle risposte sconclusionate e da quelle risatacce grulle, Pinocchio
capí che i suoi compagni gli avevano fatto una brutta celia, dandogli
ad intendere una cosa che non era vera, e pigliandosela a male, disse
loro con voce di bizza:
- E ora? che sugo ci avete trovato a darmi ad intendere la storiella
del Pesce-cane?
- Il sugo c'è sicuro!... - risposero in coro quei monelli.
- E sarebbe?
- Quello di farti perdere la scuola e di farti venire con noi. Non ti
vergogni a mostrarti tutti i giorni cosí preciso e cosí diligente alla
lezione? Non ti vergogni a studiar tanto, come fai?
- E se io studio, che cosa ve ne importa?
- A noi ce ne importa moltissimo, perché ci costringi a fare una brutta
figura col maestro...
- Perché?
- Perché gli scolari che studiano, fanno sempre scomparire quelli, come
noi, che non hanno voglia di studiare. E noi non vogliamo scomparire!
Anche noi abbiamo il nostro amor proprio!...
- E allora che cosa devo fare per contentarvi?
- Devi prendere a noia, anche tu, la scuola, la lezione e il maestro,
che sono i nostri tre grandi nemici.
- E se io volessi seguitare a studiare?
- Noi non ti guarderemo piú in faccia, e alla prima occasione ce la
pagherai!...
- In verità mi fate quasi ridere - disse il burattino con una scrollatina
di capo.
- Ehi, Pinocchio! - gridò allora il piú grande di quei ragazzi, andandogli
sul viso. - Non venir qui a fare lo smargiasso: non venir qui a far
tanto il galletto!... perché se tu non hai paura di noi, neanche noi
abbiamo paura di te! Ricordati che tu sei solo e noi siamo sette.
- Sette come i peccati mortali - disse Pinocchio con una gran risata.
- Avete sentito? Ci ha insultati tutti! Ci ha chiamato col nome di peccati
mortali!...
- Pinocchio! chiedici scusa dell'offesa... o se no, guai a te!...
- Cucú! - fece il burattino, battendosi coll'indice sulla punta del
naso, in segno di canzonatura.
- Pinocchio! la finisce male!...
- Cucú!
- Ne toccherai quanto un somaro!...
- Cucú!
- Ritornerai a casa col naso rotto!...
- Cucú!
- Ora il cucú te lo darò io! - gridò il piú ardito di quei monelli.
- Prendi intanto quest'acconto, e serbalo per la cena di stasera. -
E nel dir cosí gli appiccicò un pugno nel capo.
Ma fu, come si suol dire, botta e risposta; perché il burattino, com'era
da aspettarselo, rispose subito con un altro pugno: e lí, da un momento
all'altro, il combattimento diventò generale e accanito.
Pinocchio, sebbene fosse solo, si difendeva come un eroe. Con quei suoi
piedi di legno durissimo lavorava cosí bene, da tener sempre i suoi
nemici a rispettosa distanza. Dove i suoi piedi potevano arrivare e
toccare, ci lasciavano sempre un livido per ricordo.
Allora i ragazzi, indispettiti di non potersi misurare col burattino
a corpo a corpo, pensarono bene di metter mano ai proiettili; e sciolti
i fagotti de' loro libri di scuola, cominciarono a scagliare contro
di lui i Sillabari, le Grammatiche, i Giannettini, i Minuzzoli, i Racconti
del Thouar, il Pulcino della Baccini e altri libri scolastici: ma il
burattino, che era d'occhio svelto e ammalizzito, faceva sempre civetta
a tempo, sicché i volumi, passandogli di sopra al capo, andavano tutti
a cascare nel mare.
Figuratevi i pesci! I pesci, credendo che quei libri fossero roba da
mangiare, correvano a frotte a fior d'acqua; ma dopo avere abboccata
qualche pagina o qualche frontespizio, la risputavano subito, facendo
con la bocca una certa smorfia, che pareva volesse dire: "Non è
roba per noi: noi siamo avvezzi a cibarci molto meglio!"
Intanto il combattimento s'inferociva sempre piú, quand'ecco che un
grosso Granchio, che era uscito fuori dall'acqua e s'era adagio adagio
arrampicato fin sulla spiaggia, gridò con una vociaccia di trombone
infreddato:
- Smettetela, birichini che non siete altro! Queste guerre manesche
fra ragazzi e ragazzi raramente vanno a finir bene. Qualche disgrazia
accade sempre!... -
Povero Granchio! Fu lo stesso che avesse predicato al vento. Anzi quella
birba di Pinocchio, voltandosi indietro a guardarlo in cagnesco, gli
disse sgarbatamente:
- Chetati, Granchio dell'uggia! Faresti meglio a succiare due pasticche
di lichene per guarire da codesta infreddatura di gola. Va' piuttosto
a letto e cerca di sudare!... -
In quel frattempo i ragazzi, che avevano finito oramai di tirare tutti
i loro libri, occhiarono lí a poca distanza il fagotto dei libri del
burattino, e se ne impadronirono in men che non si dice.
Fra questi libri, v'era un volume rilegato in cartoncino grosso, colla
costola e colle punte di cartapecora. Era un Trattato di Aritmetica.
Vi lascio immaginare se era peso di molto!
Uno di quei monelli agguantò quel volume, e presa di mira la testa di
Pinocchio, lo scagliò con quanta forza aveva nel braccio: ma invece
di cogliere il burattino, colse nella testa uno dei compagni; il quale
diventò bianco come un panno lavato, e non disse altro che queste parole:
- O mamma mia, aiutatemi... perché muoio!... -
Poi cadde disteso sulla rena del lido.
Alla vista di quel morticino, i ragazzi spaventati si dettero a scappare
a gambe, e in pochi minuti non si videro piú.
Ma Pinocchio rimase lí; e sebbene per il dolore e per lo spavento, anche
lui fosse piú morto che vivo, nondimeno corse a inzuppare il suo fazzoletto
nell'acqua del mare e si pose a bagnare la tempia del suo povero compagno
di scuola. E intanto piangendo dirottamente e disperandosi, lo chiamava
per nome e gli diceva:
- Eugenio!... povero Eugenio mio!... apri gli occhi, e guardami!...
Perché non mi rispondi? Non sono stato io, sai, che ti ho fatto tanto
male! Credilo, non sono stato io!... Apri gli occhi, Eugenio... Se tieni
gli occhi chiusi, mi farai morire anche me... O Dio mio! come farò ora
a tornare a casa?... Con che coraggio potrò presentarmi alla mia buona
mamma? Che sarà di me?... Dove fuggirò?... Dove anderò a nascondermi?...
Oh! quant'era meglio, mille volte meglio che fossi andato a scuola!...
Perché ho dato retta a questi compagni, che sono la mia dannazione?...
E il maestro me l'aveva detto!... e la mia mamma me l'aveva ripetuto:
- Guardati dai cattivi compagni! - Ma io sono un testardo... un caparbiaccio...
lascio dir tutti, e poi fo sempre a modo mio! E dopo mi tocca a scontarle...
E cosí, da che sono al mondo, non ho mai avuto un quarto d'ora di bene.
Dio mio! Che sarà di me, che sarà di me, che sarà di me? -
E Pinocchio continuava a piangere, a berciare, a darsi dei pugni nel
capo e a chiamar per nome il povero Eugenio, quando sentí a un tratto
un rumore sordo di passi che si avvicinavano.
Si voltò: erano due carabinieri.
- Che cosa fai costí sdraiato per terra? - domandarono a Pinocchio.
- Assisto questo mio compagno di scuola.
- Che gli è venuto male?
- Par di sí!...
- Altro che male! - disse uno dei carabinieri, chinandosi e osservando
Eugenio da vicino. - Questo ragazzo è stato ferito in una tempia: chi
è che l'ha ferito?
- Io no! - balbettò il burattino che non aveva piú fiato in corpo.
- Se non sei stato tu, chi è stato dunque che l'ha ferito?
- Io no! - ripeté Pinocchio.
- E con che cosa è stato ferito?
- Con questo libro. - E il burattino raccattò di terra il Trattato di
Aritmetica, rilegato in cartone e cartapecora, per mostrarlo al carabiniere.
- E questo libro di chi è?
- Mio.
- Basta cosí: non occorre altro. Rizzati subito, e vien via con noi.
- Ma io...
- Via con noi!...
- Ma io sono innocente...
- Via con noi! -
Prima di partire, i carabinieri chiamarono alcuni pescatori, che in
quel momento passavano per l'appunto colla loro barca vicino alla spiaggia,
e dissero loro:
- Vi affidiamo questo ragazzetto ferito nel capo. Portatelo a casa vostra
e assistetelo. Domani torneremo a vederlo. -
Quindi si volsero a Pinocchio e dopo averlo messo in mezzo a loro due,
gl'intimarono con accento soldatesco:
- Avanti! e cammina spedito! se no, peggio per te! -
Senza farselo ripetere, il burattino cominciò a camminare per quella
viottola, che conduceva al paese. Ma il povero diavolo non sapeva piú
nemmeno lui in che mondo si fosse. Gli pareva di sognare, e che brutto
sogno! Era fuori di sé. I suoi occhi vedevano tutto doppio: le gambe
gli tremavano: la lingua gli era rimasta attaccata al palato e non poteva
piú spiccicare una sola parola. Eppure, in mezzo a quella specie di
stupidità e di rintontimento, una spina acutissima gli bucava il cuore:
il pensiero, cioè, di dover passare sotto le finestre di casa della
sua buona Fata, in mezzo ai carabinieri. Avrebbe preferito piuttosto
di morire.
Erano già arrivati e stavano per entrare in paese, quando una folata
di vento strapazzone levò di testa a Pinocchio il berretto, portandoglielo
lontano una diecina di passi.
- Si contentano - disse il burattino ai carabinieri - che vada a riprendere
il mio berretto?
- Vai pure; ma facciamo una cosa lesta. -
Il burattino andò, raccattò il berretto... ma invece di metterselo in
capo, se lo mise in bocca fra i denti, e poi cominciò a correre di gran
carriera verso la spiaggia del mare. Andava via come una palla di fucile.
I carabinieri, giudicando che fosse difficile raggiungerlo, gli aizzarono
dietro un grosso cane mastino, che aveva guadagnato il primo premio
a tutte le corse dei cani. Pinocchio correva, e il cane correva piú
di lui: per cui tutta la gente si affacciava alle finestre e si affollava
in mezzo alla strada, ansiosa di veder la fine di un palio cosí inferocito.
Ma non poté levarsi questa voglia, perché fra il can mastino e Pinocchio
sollevarono lungo la strada un tal polverone, che dopo pochi minuti
non era possibile di veder piú nulla.
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XXVIII
Pinocchio
corre pericolo di esser fritto in padella, come un pesce.
Durante quella corsa disperata,
vi fu un momento terribile, un momento in cui Pinocchio si credé perduto:
perché bisogna sapere che Alidoro (era questo il nome del can mastino)
a furia di correre e correre, l'aveva quasi raggiunto.
Basti dire che il burattino sentiva dietro di sé, alla distanza d'un
palmo, l'ansare affannoso di quella bestiaccia, e ne sentiva perfino
la vampa calda delle fiatate.
Per buona fortuna la spiaggia era oramai vicina e il mare si vedeva
lí a pochi passi.
Appena fu sulla spiaggia, il burattino spiccò un bellissimo salto, come
avrebbe potuto fare un ranocchio, e andò a cascare in mezzo all'acqua.
Alidoro invece voleva fermarsi; ma trasportato dall'impeto della corsa,
entrò nell'acqua anche lui. E quel disgraziato non sapeva nuotare; per
cui cominciò subito ad annaspare colle zampe per reggersi a galla: ma
piú annaspava e piú andava col capo sott'acqua.
Quando tornò a rimettere il capo fuori, il povero cane aveva gli occhi
impauriti e stralunati, e, abbaiando, gridava:
- Affogo! affogo!
- Crepa! - gli rispose Pinocchio da lontano, il quale si vedeva oramai
sicuro da ogni pericolo.
- Aiutami, Pinocchio mio!... salvami dalla morte!... -
A quelle grida strazianti il burattino, che in fondo aveva un cuore
eccellente, si mosse a compassione, e voltosi al cane gli disse:
- Ma se io ti aiuto a salvarti, mi prometti di non darmi piú noia e
di non corrermi dietro?
- Te lo prometto! te lo prometto! Spicciati per carità, perché se indugi
un altro mezzo minuto, son bell'e morto. -
Pinocchio esitò un poco: ma poi ricordandosi che il suo babbo gli aveva
detto tante volte che a fare una buona azione non ci si scapita mai,
andò nuotando a raggiungere Alidoro, e, presolo per la coda con tutte
e due le mani, lo portò sano e salvo sulla rena asciutta del lido.
Il povero cane non si reggeva piú in piedi. Aveva bevuto, senza volerlo,
tant'acqua salata, che era gonfiato come un pallone. Per altro il burattino,
non volendo fare a fidarsi troppo, stimò cosa prudente di gettarsi novamente
in mare; e allontanandosi dalla spiaggia, gridò all'amico salvato:
- Addio, Alidoro; fa' buon viaggio e tanti saluti a casa.
- Addio, Pinocchio - rispose il cane; - mille grazie di avermi liberato
dalla morte. Tu m'hai fatto un gran servizio: e in questo mondo quel
che è fatto è reso. Se capita l'occasione, ci riparleremo... -
Pinocchio seguitò a nuotare, tenendosi sempre vicino alla terra. Finalmente
gli parve di esser giunto in un luogo sicuro; e dando un'occhiata alla
spiaggia, vide sugli scogli una specie di grotta, dalla quale usciva
un lunghissimo pennacchio di fumo.
- In quella grotta - disse allora fra sé - ci deve essere del fuoco.
Tanto meglio! Anderò a rasciugarmi e a riscaldarmi, e poi?... e poi
sarà quel che sarà. -
Presa questa risoluzione, si avvicinò alla scogliera; ma quando fu lí
per arrampicarsi, sentí qualche cosa sotto l'acqua che saliva, saliva,
saliva e lo portava per aria. Tentò subito di fuggire, ma oramai era
tardi, perché con sua grandissima maraviglia si trovò rinchiuso dentro
una grossa rete in mezzo a un brulichío di pesci d'ogni forma e grandezza,
che scodinzolavano e si dibattevano come tante anime disperate.
E nel tempo stesso vide uscire dalla grotta un pescatore cosí brutto,
ma tanto brutto, che pareva un mostro marino. Invece di capelli aveva
sulla testa un cespuglio foltissimo di erba verde; verde era la pelle
del suo corpo, verdi gli occhi, verde la barba lunghissima, che gli
scendeva fin quaggiú. Pareva un grosso ramarro ritto sui piedi di dietro.
Quando il pescatore ebbe tirata fuori la rete dal mare, gridò tutto
contento:
- Provvidenza benedetta! Anch'oggi potrò fare una bella scorpacciata
di pesce!
- Manco male, che io non sono un pesce! - disse Pinocchio dentro di
sé, ripigliando un po' di coraggio.
La rete piena di pesci fu portata dentro la grotta, una grotta buia
e affumicata, in mezzo alla quale friggeva una gran padella d'olio,
che mandava un odorino di moccolaia, da mozzare il respiro.
- Ora vediamo un po' che pesci abbiamo presi! - disse il pescatore verde;
e ficcando nella rete una manona cosí spropositata, che pareva una pala
da fornai, tirò fuori una manciata di triglie.
- Buone queste triglie! - disse, guardandole e annusandole con compiacenza.
E dopo averle annusate, le scaraventò in una conca senz'acqua.
Poi ripeté piú volte la solita operazione; e via via che cavava fuori
gli altri pesci, sentiva venirsi l'acquolina in bocca e gongolando diceva:
- Buoni questi naselli!...
- Squisiti questi muggini!...
- Deliziose queste sogliole!...
- Prelibati questi ragnotti!...
- Carine queste acciughe col capo!... -
Come potete immaginarvelo, i naselli, i muggini, le sogliole, i ragnotti
e l'acciughe, andarono tutti alla rinfusa nella conca, a tener compagnia
alle triglie.
L'ultimo che restò nella rete fu Pinocchio.
Appena il pescatore l'ebbe cavato fuori, sgranò dalla maraviglia i suoi
occhioni verdi, gridando quasi impaurito:
- Che razza di pesce è questo? Dei pesci fatti a questo modo non mi
ricordo di averne mangiati mai! -
E tornò a guardarlo attentamente, e dopo averlo guardato ben bene per
ogni verso, finí col dire:
- Ho capito: dev'essere un granchio di mare. -
Allora Pinocchio, mortificato di sentirsi scambiare per un granchio,
disse con accento risentito:
- Ma che granchio e non granchio? Guardi come lei mi tratta! Io per
sua regola sono un burattino.
- Un burattino? - replicò il pescatore. - Dico la verità, il pesce burattino
è per me un pesce nuovo! Meglio cosí! ti mangerò piú volentieri.
- Mangiarmi? ma la vuol capire che io non sono un pesce? O non sente
che parlo, e ragiono come lei?
- È verissimo - soggiunse il pescatore - e siccome vedo che sei un pesce,
che hai la fortuna di parlare e di ragionare, come me, cosí voglio usarti
anch'io i dovuti riguardi.
- E questi riguardi sarebbero?...
- In segno di amicizia e di stima particolare, lascerò a te la scelta
del come vuoi esser cucinato. Desideri esser fritto in padella, oppure
preferisci di esser cotto nel tegame con la salsa di pomidoro?
- A dir la verità - rispose Pinocchio - se io debbo scegliere, preferisco
piuttosto di esser lasciato libero, per potermene tornare a casa mia.
- Tu scherzi! Ti pare che io voglia perdere l'occasione di assaggiare
un pesce cosí raro? Non capita mica tutti i giorni un pesce burattino
in questi mari. Lascia fare a me: ti friggerò in padella assieme a tutti
gli altri pesci, e te ne troverai contento. L'esser fritto in compagnia
è sempre una consolazione. -
L'infelice Pinocchio, a quest'antifona, cominciò a piangere, a strillare,
a raccomandarsi: e piangendo diceva: - Quant'era meglio, che fossi andato
a scuola!... Ho voluto dar retta ai compagni, e ora la pago! Ih!...
Ih!... Ih!... -
E perché si divincolava come un'anguilla e faceva sforzi incredibili,
per isgusciare dalle grinfie del pescatore verde, questi prese una bella
buccia di giunco, e dopo averlo legato per le mani e per i piedi, come
un salame, lo gettò in fondo alla conca cogli altri.
Poi, tirato fuori un vassoiaccio di legno, pieno di farina, si dètte
a infarinare tutti quei pesci: e man mano che gli aveva infarinati,
li buttava a friggere dentro la padella.
I primi a ballare nell'olio bollente furono i poveri naselli: poi toccò
ai ragnotti, poi ai muggini, poi alle sogliole e alle acciughe, e poi
venne la volta di Pinocchio. Il quale, a vedersi cosí vicino alla morte
(e che brutta morte!) fu preso da tanto tremito e da tanto spavento,
che non aveva piú né voce né fiato per raccomandarsi.
Il povero figliuolo si raccomandava cogli occhi! Ma il pescatore verde,
senza badarlo neppure, lo avvoltolò cinque o sei volte nella farina,
infarinandolo cosí bene dal capo ai piedi, che pareva diventato un burattino
di gesso.
Poi lo prese per il capo, e...
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XXIX
Ritorna
a casa della Fata, la quale gli promette che il giorno dopo non sarà
piú un burattino, ma diventerà un ragazzo. Gran colazione di caffè-e-latte
per festeggiare questo grande avvenimento.
Mentre il pescatore era proprio
sul punto di buttar Pinocchio nella padella, entrò nella grotta un grosso
cane condotto là dall'odore acutissimo e ghiotto della frittura.
- Passa via! - gli gridò il pescatore minacciandolo e tenendo sempre
in mano il burattino infarinato.
Ma il povero cane aveva una fame per quattro, e mugolando e dimenando
la coda, pareva che dicesse:
- Dammi un boccone di frittura e ti lascio in pace.
- Passa via, ti dico! - gli ripeté il pescatore; e allungò la gamba
per tirargli una pedata.
Allora il cane che, quando aveva fame davvero, non era avvezzo a lasciarsi
posar mosche sul naso, si rivoltò ringhioso al pescatore, mostrandogli
le sue terribili zanne.
In quel mentre si udí nella grotta una vocina fioca fioca che disse:
- Salvami, Alidoro! Se non mi salvi, son fritto!... -
Il cane riconobbe subito la voce di Pinocchio, e si accòrse con sua
grandissima maraviglia che la vocina era uscita da quel fagotto infarinato
che il pescatore teneva in mano.
Allora che cosa fa? Spicca un gran lancio da terra, abbocca quel fagotto
infarinato e tenendolo leggermente coi denti, esce correndo dalla grotta,
e via come un baleno!
Il pescatore, arrabbiatissimo di vedersi strappar di mano un pesce,
che egli avrebbe mangiato tanto volentieri, si provò a rincorrere il
cane; ma fatti pochi passi, gli venne un nodo di tosse e dové tornarsene
indietro.
Intanto Alidoro, ritrovata che ebbe la viottola che conduceva al paese,
si fermò e posò delicatamente in terra l'amico Pinocchio.
- Quanto ti debbo ringraziare! - disse il burattino.
- Non c'è bisogno - replicò il cane - tu salvasti me, e quel che è fatto
è reso. Si sa: in questo mondo bisogna tutti aiutarsi l'uno coll'altro.
- Ma come mai sei capitato in quella grotta?
- Ero sempre qui disteso sulla spiaggia piú morto che vivo, quando il
vento mi ha portato da lontano un odorino di frittura. Quell'odorino
mi ha stuzzicato l'appetito, e io gli sono andato dietro. Se arrivavo
un minuto piú tardi!...
- Non me lo dire! - urlò Pinocchio che tremava ancora dalla paura -
Non me lo dire! Se tu arrivavi un minuto piú tardi, a quest'ora io ero
bell'e fritto, mangiato e digerito. Brrr! mi vengono i brividi soltanto
a pensarvi!... -
Alidoro, ridendo, stese la zampa destra verso il burattino, il quale
gliela strinse forte forte in segno di grande amicizia: e dopo si lasciarono.
Il cane riprese la strada di casa: e Pinocchio, rimasto solo, andò a
una capanna lí poco distante, e domandò a un vecchietto che stava sulla
porta a scaldarsi al sole:
- Dite, galantuomo, sapete nulla di un povero ragazzo ferito nel capo
e che si chiamava Eugenio?
- Il ragazzo è stato portato da alcuni pescatori in questa capanna,
e ora...
- Ora sarà morto!... - interruppe Pinocchio, con gran dolore.
- No: ora è vivo, ed è già ritornato a casa sua.
- Davvero?... davvero?... - gridò il burattino, saltando dall'allegrezza
- Dunque la ferita non era grave?...
- Ma poteva riuscire gravissima e anche mortale, - rispose il vecchietto
- perché gli tirarono nel capo un grosso libro rilegato in cartone.
- E chi glielo tirò?
- Un suo compagno di scuola: un certo Pinocchio...
- E chi è questo Pinocchio? - domandò il burattino facendo lo gnorri.
- Dicono che sia un ragazzaccio, un vagabondo, un vero rompicollo...
- Calunnie! Tutte calunnie!
- Lo conosci tu questo Pinocchio?
- Di vista! - rispose il burattino.
- E tu che concetto ne hai? - gli chiese il vecchietto.
- A me mi pare un gran buon figliuolo, pieno di voglia di studiare,
ubbidiente, affezionato al suo babbo e alla sua famiglia... -
Mentre il burattino sfilava a faccia fresca tutte queste bugie, si toccò
il naso e si accòrse che il naso gli era allungato piú d'un palmo. Allora
tutto impaurito cominciò a gridare:
- Non date retta, galantuomo, a tutto il bene che ve ne ho detto; perché
conosco benissimo Pinocchio e posso assicurarvi anch'io che è davvero
un ragazzaccio, un disubbidiente e uno svogliato, che invece di andare
a scuola, va coi compagni a fare lo sbarazzino! -
Appena ebbe pronunziate queste parole, il suo naso raccorcí e tornò
della grandezza naturale, come era prima.
- E perché sei tutto bianco a codesto modo? - gli domandò a un tratto
il vecchietto.
- Vi dirò... senza avvedermene, mi sono strofinato a un muro, che era
imbiancato di fresco - rispose il burattino, vergognandosi a raccontare
che lo avevano infarinato come un pesce, per poi friggerlo in padella.
- O della tua giacchetta, de' tuoi calzoncini e del tuo berretto, che
cosa ne hai fatto?
- Ho incontrato i ladri e mi hanno spogliato. Dite, buon vecchio, non
avreste per caso da darmi un po' di vestituccio, tanto perché io possa
ritornare a casa?
- Ragazzo mio; in quanto a vestiti, io non ho che un piccolo sacchetto,
dove ci tengo i lupini. Se lo vuoi, piglialo: eccolo là. -
E Pinocchio non se lo fece dire due volte: prese subito il sacchetto
dei lupini che era vuoto, e dopo averci fatto colle forbici una piccola
buca nel fondo e due buche dalle parti, se lo infilò a uso camicia.
E vestito leggerino a quel modo, si avviò verso il paese.
Ma, lungo la strada, non si sentiva punto tranquillo; tant'è vero che
faceva un passo avanti e uno indietro e, discorrendo da sé solo, andava
dicendo:
- Come farò a presentarmi alla mia buona Fatina? Che dirà quando mi
vedrà?... Vorrà perdonarmi questa seconda birichinata?... Scommetto
che non me la perdona!... oh! non me la perdona di certo... E mi sta
il dovere: perché io sono un monello che prometto sempre di correggermi,
e non mantengo mai!... -
Arrivò al paese che era già notte buia; e perché faceva tempaccio e
l'acqua veniva giú a catinelle, andò diritto diritto alla casa della
Fata coll'animo risoluto di bussare alla porta e di farsi aprire.
Ma, quando fu lí, sentí mancarsi il coraggio, e invece di bussare, si
allontanò, correndo, una ventina di passi. Poi tornò una seconda volta
alla porta, e non concluse nulla: poi si avvicinò una terza volta, e
nulla: la quarta volta prese, tremando, il battente di ferro in mano
e bussò un piccolo colpettino.
Aspetta, aspetta, finalmente dopo mezz'ora si aprí una finestra dell'ultimo
piano (la casa era di quattro piani) e Pinocchio vide affacciarsi una
grossa lumaca, che aveva un lumicino acceso sul capo, la quale disse:
- Chi è a quest'ora?
- La Fata è in casa? - domandò il burattino.
- La Fata dorme e non vuol essere svegliata: ma tu chi sei?
- Sono io!
- Chi io?
- Pinocchio.
- Chi Pinocchio?
- Il burattino, quello che sta in casa colla Fata.
- Ah! ho capito; - disse la Lumaca - aspettami costí, ché ora scendo
giú e ti apro subito.
- Spicciatevi, per carità, perché io muoio dal freddo.
- Ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno mai fretta.
-
Intanto passò un'ora, ne passarono due, e la porta non si apriva: per
cui Pinocchio, che tremava dal freddo, dalla paura e dall'acqua che
aveva addosso, si fece cuore e bussò una seconda volta, e bussò piú
forte.
A quel secondo colpo si aprí una finestra del piano di sotto e si affacciò
la solita lumaca.
- Lumachina bella - gridò Pinocchio dalla strada - sono due ore che
aspetto! E due ore, a questa serataccia, diventano piú lunghe di due
anni. Spicciatevi, per carità.
- Ragazzo mio, - gli rispose dalla finestra quella bestiòla tutta pace
e tutta flemma - ragazzo mio, io sono una lumaca, e le lumache non hanno
mai fretta. -
E la finestra si richiuse.
Di lí a poco sonò la mezzanotte: poi il tocco, poi le due dopo mezzanotte,
e la porta era sempre chiusa.
Allora Pinocchio, perduta la pazienza, afferrò con rabbia il battente
della porta per bussare un colpo da far rintronare tutto il casamento:
ma il battente che era di ferro, diventò a un tratto un'anguilla viva,
che sgusciandogli dalle mani sparí in un rigagnolo d'acqua che scorreva
in mezzo alla strada.
- Ah! sí? - gridò Pinocchio sempre piú accecato dalla collera. - Se
il battente è sparito, io seguiterò a bussare a furia di calci. -
E tiratosi un poco indietro, lasciò andare una solennissima pedata nell'uscio
della casa. Il colpo fu cosí forte, che il piede penetrò nel legno fino
a mezzo: e quando il burattino si provò a ricavarlo fuori, fu tutta
fatica inutile: perché il piede c'era rimasto conficcato dentro, come
un chiodo ribadito.
Figuratevi il povero Pinocchio! Dové passare tutto il resto della notte
con un piede in terra e con quell'altro per aria.
La mattina, sul far del giorno, finalmente la porta si aprí. Quella
brava bestiòla della Lumaca, a scendere dal quarto piano fino all'uscio
di strada, ci aveva messo solamente nove ore. Bisogna proprio dire che
avesse fatto una sudata.
- Che cosa fate con codesto piede conficcato nell'uscio? - domandò ridendo
al burattino.
- È stata una disgrazia. Vedete un po', Lumachina bella, se vi riesce
di liberarmi da questo supplizio.
- Ragazzo mio, costí ci vuole un legnaiolo, e io non ho fatto mai la
legnaiola.
- Pregate la Fata da parte mia!...
- La Fata dorme e non vuol essere svegliata.
- Ma che cosa volete che io faccia inchiodato tutto il giorno a questa
porta?
- Divertiti a contare le formicole che passano per la strada.
- Portatemi almeno qualche cosa da mangiare, perché mi sento rifinito.
- Subito! - disse la Lumaca.
Difatti dopo tre ore e mezzo, Pinocchio la vide tornare con un vassoio
d'argento in capo. Nel vassoio c'era un pane, un pollastro arrosto e
quattro albicocche mature.
- Ecco la colazione che vi manda la Fata - disse la Lumaca.
Alla vista di quella grazia di Dio, il burattino sentí consolarsi tutto.
Ma quale fu il suo disinganno, quando incominciando a mangiare, si dové
accorgere che il pane era di gesso, il pollastro di cartone e le quattro
albicocche di alabastro, colorite, come se fossero vere.
Voleva piangere, voleva darsi alla disperazione, voleva buttar via il
vassoio e quel che c'era dentro; ma invece, o fosse il gran dolore o
la gran languidezza di stomaco, fatto sta che cadde svenuto.
Quando si riebbe, si trovò disteso sopra un sofà, e la Fata era accanto
a lui.
- Anche per questa volta ti perdono - gli disse la Fata - ma guai a
te, se me ne fai un'altra delle tue!...
Pinocchio promise e giurò che avrebbe studiato, e che si sarebbe condotto
sempre bene. E mantenne la parola per tutto il resto dell'anno. Difatti
agli esami delle vacanze, ebbe l'onore di essere il piú bravo della
scuola; e i suoi portamenti, in generale, furono giudicati cosí lodevoli
e soddisfacenti, che la Fata, tutta contenta, gli disse:
- Domani finalmente il tuo desiderio sarà appagato!
- Cioè?
- Domani finirai di essere un burattino di legno, e diventerai un ragazzo
perbene. -
Chi non ha veduto la gioia di Pinocchio, a questa notizia tanto sospirata,
non potrà mai figurarsela. Tutti i suoi amici e compagni di scuola dovevano
essere invitati per il giorno dopo a una gran colazione in casa della
Fata, per festeggiare insieme il grande avvenimento: e la Fata aveva
fatto preparare dugento tazze di caffè-e-latte e quattrocento panini
imburrati di dentro e di fuori. Quella giornata prometteva di riuscire
molto bella e molto allegra: ma...
Disgraziatamente, nella vita dei burattini, c'è sempre un ma, che sciupa
ogni cosa.
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XXX
Pinocchio,
invece di diventare un ragazzo, parte di nascosto col suo amico Lucignolo
per il "Paese dei balocchi".
Com'è naturale, Pinocchio chiese
subito alla Fata il permesso di andare in giro per la città a fare gl'inviti:
e la Fata gli disse:
- Va' pure a invitare i tuoi compagni per la colazione di domani: ma
ricordati di tornare a casa prima che faccia notte. Hai capito?
- Fra un'ora prometto di esser bell'e ritornato - replicò il burattino.
- Bada, Pinocchio! I ragazzi fanno presto a promettere, ma il piú delle
volte, fanno tardi a mantenere.
- Ma io non sono come gli altri: io, quando dico una cosa, la mantengo.
- Vedremo. Caso poi tu disubbidissi, tanto peggio per te.
- Perché?
- Perché i ragazzi che non dànno retta ai consigli di chi ne sa piú
di loro, vanno sempre incontro a qualche disgrazia.
- E io l'ho provato! - disse Pinocchio. - Ma ora non ci ricasco piú!
- Vedremo se dici il vero. -
Senza aggiungere altre parole, il burattino salutò la sua buona Fata,
che era per lui una specie di mamma, e cantando e ballando uscí fuori
dalla porta di casa.
In poco piú d'un'ora, tutti i suoi amici furono invitati. Alcuni accettarono
subito e di gran cuore: altri, da principio, si fecero un po' pregare:
ma quando seppero che i panini da inzuppare nel caffè-e-latte sarebbero
stati imburrati anche dalla parte di fuori, finirono tutti col dire:
- "Verremo anche noi, per farti piacere".
Ora bisogna sapere che Pinocchio, fra i suoi amici e compagni di scuola,
ne aveva uno prediletto e carissimo, il quale si chiamava di nome Romeo:
ma tutti lo chiamavano col soprannome di Lucignolo, per via del suo
personalino asciutto, secco e allampanato, tale e quale come il lucignolo
nuovo di un lumino da notte.
Lucignolo era il ragazzo piú svogliato e piú birichino di tutta la scuola:
ma Pinocchio gli voleva un bran bene. Difatti andò subito a cercarlo
a casa, per invitarlo alla colazione, e non lo trovò: tornò una seconda
volta, e Lucignolo non c'era: tornò una terza volta, e fece la strada
invano.
Dove poterlo ripescare? Cerca di qua, cerca di là, finalmente lo vide
nascosto sotto il portico di una casa di contadini.
- Che cosa fai costí? - gli domandò Pinocchio, avvicinandosi.
- Aspetto [di] partire...
- Dove vai?
- Lontano, lontano, lontano!
- E io che son venuto a cercarti a casa tre volte!...
- Che cosa volevi da me?
- Non sai il grande avvenimento? Non sai la fortuna che mi è toccata?
- Quale?
- Domani finisco di essere un burattino e divento un ragazzo come te,
e come tutti gli altri.
- Buon pro ti faccia.
- Domani, dunque, ti aspetto a colazione a casa mia.
- Ma se ti dico che parto questa sera.
- A che ora?
- Fra poco.
- E dove vai?
- Vado ad abitare in un paese... che è il piú bel paese di questo mondo:
una vera cuccagna!...
- E come si chiama?
- Si chiama il "Paese dei balocchi". Perché non vieni anche
tu?
- Io? no davvero!
- Hai torto, Pinocchio! Credilo a me che, se non vieni, te ne pentirai.
Dove vuoi trovare un paese piú sano per noialtri ragazzi? Lí non vi
sono scuole: lí non vi sono maestri: lí non vi sono libri. In quel paese
benedetto non si studia mai. Il giovedí non si fa scuola: e ogni settimana
è composta di sei giovedí e di una domenica. Figurati che le vacanze
dell'autunno cominciano col primo di gennaio e finiscono coll'ultimo
di dicembre. Ecco un paese, come piace veramente a me! Ecco come dovrebbero
essere tutti i paesi civili!...
- Ma come si passano le giornate nel "Paese dei balocchi"?
- Si passano baloccandosi e divertendosi dalla mattina alla sera. La
sera poi si va a letto, e la mattina dopo si ricomincia daccapo. Che
te ne pare?
- Uhm!... - fece Pinocchio; e tentennò leggermente il capo, come dire:
- "È una vita che la farei volentieri anch'io!"
- Dunque, vuoi partire con me? Sí o no? Risolviti.
- No, no, no e poi no. Oramai ho promesso alla mia buona Fata di diventare
un ragazzo per bene, e voglio mantenere la promessa. Anzi, siccome vedo
che il sole va sotto, cosí ti lascio subito e scappo via. Dunque addio,
e buon viaggio.
- Dove corri con tanta furia?
- A casa. La mia buona Fata vuole che ritorni prima di notte.
- Aspetta altri due minuti.
- Faccio troppo tardi.
- Due minuti soli.
- E se poi la Fata mi grida?
- Lasciala gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà - disse
quella birba di Lucignolo.
- E come fai? Parti solo o in compagnia?
- Solo? Saremo piú di cento ragazzi.
- E il viaggio lo fate a piedi?
- Fra poco passerà di qui il carro che mi deve prendere e condurre fin
dentro ai confini di quel fortunatissimo paese.
- Che cosa pagherei che il carro passasse ora!...
- Perché?
- Per vedervi partire tutti insieme.
- Rimani qui un altro poco e ci vedrai.
- No, no: voglio ritornare a casa.
- Aspetta altri due minuti.
- Ho indugiato anche troppo. La Fata starà in pensiero per me.
- Povera Fata! Che ha paura forse che ti mangino i pipistrelli?
- Ma dunque - soggiunse Pinocchio - tu sei veramente sicuro che in quel
paese non ci sono punte scuole?...
- Neanche l'ombra.
- E nemmeno i maestri?
- Nemmen uno.
- E non c'è mai l'obbligo di studiare?
- Mai, mai, mai!
- Che bel paese! - disse Pinocchio, sentendo venirsi l'acquolina in
bocca. - Che bel paese! Io non ci sono stato mai, ma me lo figuro!...
- Perché non vieni anche tu?
- È inutile che tu mi tenti! Oramai ho promesso alla mia buona Fata
di diventare un ragazzo di giudizio, e non voglio mancare alla parola.
- Dunque addio, e salutami tanto le scuole ginnasiali!... e anche quelle
liceali, se le incontri per la strada.
- Addio, Lucignolo: fa' buon viaggio, divertiti e rammentati qualche
volta degli amici. -
Ciò detto, il burattino fece due passi in atto di andarsene: ma poi,
fermandosi e voltandosi all'amico, gli domandò:
- Ma sei proprio sicuro che in quel paese tutte le settimane sieno composte
di sei giovedí e di una domenica?
- Sicurissimo.
- Ma lo sai di certo che le vacanze abbiano principio col primo di gennaio
e finiscano coll'ultimo di dicembre?
- Di certissimo!
- Che bel paese! - ripeté Pinocchio, sputando dalla soverchia consolazione.
Poi, fatto un animo risoluto, soggiunse in fretta e furia:
- Dunque, addio davvero: e buon viaggio.
- Addio.
- Fra quanto partirete?
- Fra poco!
- Sarei quasi quasi capace di aspettare.
- E la Fata?...
- Oramai ho fatto tardi!... e tornare a casa un'ora prima o un'ora dopo,
è lo stesso.
- Povero Pinocchio! E se la Fata ti grida?
- Pazienza! La lascerò gridare. Quando avrà gridato ben bene, si cheterà.
-
Intanto si era già fatta notte e notte buia: quando a un tratto videro
muoversi in lontananza un lumicino... e sentirono un suono di bubboli
e uno squillo di trombetta, cosí piccolino e soffocato, che pareva il
sibilo di una zanzara!
- Eccolo! - gridò Lucignolo, rizzandosi in piedi.
- Chi è? - domandò sottovoce Pinocchio.
- È il carro che viene a prendermi. Dunque, vuoi venire, sí o no?
- Ma è proprio vero - domandò il burattino - che in quel paese i ragazzi
non hanno mai l'obbligo di studiare?
- Mai, mai, mai!
- Che bel paese!... che bel paese!... che bel paese!... -
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XXXI
Dopo
cinque mesi di cuccagna, Pinocchio con sua gran maraviglia, sente spuntarsi
un bel pajo d'orecchie asinine, e diventa un ciuchino, con la coda e
tutto.
Finalmente il carro arrivò: e
arrivò senza fare il piú piccolo rumore, perché le sue ruote erano fasciate
di stoppa e di cenci.
Lo tiravano dodici pariglie di ciuchini, tutti della medesima grandezza,
ma di diverso pelame.
Alcuni erano bigi, altri bianchi, altri brizzolati a uso pepe e sale,
e altri rigati da grandi strisce gialle e turchine.
Ma la cosa piú singolare era questa: che quelle dodici pariglie, ossia
quei ventiquattro ciuchini, invece di esser ferrati come tutte le altre
bestie da tiro o da soma, avevano in piedi degli stivaletti da uomo
fatti di pelle bianca.
E il conduttore del carro?...
Figuratevi un omino piú largo che lungo, tenero e untuoso come una palla
di burro, con un visino di melarosa, una bocchina che rideva sempre
e una voce sottile e carezzevole, come quella d'un gatto, che si raccomanda
al buon cuore della padrona di casa.
Tutti i ragazzi, appena lo vedevano, ne restavano innamorati e facevano
a gara nel montare sul suo carro, per esser condotti da lui in quella
vera cuccagna conosciuta nella carta geografica col seducente nome di
"Paese de' balocchi".
Difatti il carro era già tutto pieno di ragazzetti fra gli otto e i
dodici anni, ammonticchiati gli uni sugli altri come tante acciughe
nella salamoia. Stavano male, stavano pigiati, non potevano quasi respirare:
ma nessuno diceva ohi! nessuno si lamentava. La consolazione di sapere
che fra poche ore sarebbero giunti in un paese, dove non c'erano né
libri, né scuola, né maestri, li rendeva cosí contenti e rassegnati,
che non sentivano né i disagi, né gli strapazzi, né la fame, né la sete,
né il sonno.
Appena che il carro si fu fermato, l'Omino si volse a Lucignolo, e con
mille smorfie e mille manierine, gli domandò sorridendo:
- Dimmi, mio bel ragazzo, vuoi venire anche tu in quel fortunato paese?
- Sicuro che ci voglio venire.
- Ma ti avverto, carino mio, che nel carro non c'è piú posto. Come vedi,
è tutto pieno!...
- Pazienza! - replicò Lucignolo - se non c'è posto dentro, mi adatterò
a star seduto sulle stanghe del carro. -
E spiccato un salto, montò a cavalcioni sulle stanghe.
- E tu, amor mio - disse l'Omino volgendosi tutto complimentoso a Pinocchio
- che intendi fare? Vieni con noi o rimani?...
- Io rimango - rispose Pinocchio. - Io voglio tornarmene a casa mia:
voglio studiare e voglio farmi onore alla scuola, come fanno tutti i
ragazzi perbene.
- Buon pro ti faccia!
- Pinocchio! - disse allora Lucignolo. - Da' retta a me: vieni con noi,
e staremo allegri.
- No, no, no!
- Vieni con noi e staremo allegri - gridarono altre quattro voci di
dentro al carro.
- Vieni con noi e staremo allegri - urlarono tutte insieme un centinaio
di voci.
- E se vengo con voi, che cosa dirà la mia buona Fata? - disse il burattino
che cominciava a intenerirsi e a ciurlar nel manico.
- Non ti fasciare il capo con tante malinconie. Pensa che andiamo in
un paese dove saremo padroni di fare il chiasso dalla mattina alla sera!
-
Pinocchio non rispose, ma fece un sospiro: poi fece un altro sospiro:
poi un terzo sospiro: finalmente disse:
- Fatemi un po' di posto: voglio venire anch'io!...
- I posti son tutti pieni - replicò l'Omino - ma per mostrarti quanto
sei gradito, posso cederti il mio posto a cassetta...
- E voi?...
- E io farò la strada a piedi.
- No davvero, che non lo permetto. Preferisco piuttosto di salire in
groppa a qualcuno di questi ciuchini! - gridò Pinocchio.
Detto fatto, si avvicinò al ciuchino manritto della prima pariglia,
e fece l'atto di volerlo cavalcare: ma la bestiòla, voltandosi a secco,
gli dètte una gran musata nello stomaco e lo gettò a gambe all'aria.
Figuratevi la risatona impertinente e sgangherata di tutti quei ragazzi
presenti alla scena.
Ma l'Omino non rise. Si accostò pieno di amorevolezza al ciuchino ribelle,
e, facendo finta di dargli un bacio, gli staccò con un morso la metà
dell'orecchio destro.
Intanto Pinocchio, rizzatosi da terra tutto infuriato, schizzò con un
salto sulla groppa di quel povero animale. E il salto fu cosí bello,
che i ragazzi, smesso di ridere, cominciarono a urlare: viva Pinocchio!
e a fare una smanacciata di applausi, che non finivano piú.
Quand'ecco che all'improvviso il ciuchino alzò tutte e due le gambe
di dietro, e dando una fortissima sgropponata, scaraventò il povero
burattino in mezzo alla strada, sopra un monte di ghiaia.
Allora grandi risate daccapo: ma l'Omino, invece di ridere, si sentí
preso da tanto amore per quell'irrequieto asinello che, con un bacio,
gli portò via di netto la metà di quell'altro orecchio. Poi disse al
burattino:
- Rimonta pure a cavallo, e non aver paura. Quel ciuchino aveva qualche
grillo per il capo: ma io gli ho detto due paroline negli orecchi, e
spero di averlo reso mansueto e ragionevole. -
Pinocchio montò: e il carro cominciò a muoversi: ma nel tempo che i
ciuchini galoppavano e che il carro correva sui ciottoli della via maestra,
gli parve al burattino di sentire una voce sommessa e appena intelligibile,
che gli disse:
- Povero gonzo! Hai voluto fare a modo tuo, ma te ne pentirai! -
Pinocchio, quasi impaurito, guardò di qua e di là, per conoscere da
qual parte venissero queste parole; ma non vide nessuno: i ciuchini
galoppavano, il carro correva, i ragazzi dentro al carro dormivano,
Lucignolo russava come un ghiro e l'Omino seduto a cassetta, canterellava
fra i denti:
Tutti la notte dormono
E io non dormo mai...
Fatto un altro mezzo chilometro,
Pinocchio sentí la solita vocina fioca che gli disse:
- Tienlo a mente, grullerello! I ragazzi che smettono di studiare e
voltano le spalle ai libri, alle scuole e ai maestri, per darsi interamente
ai balocchi e ai divertimenti, non possono far altro che una fine disgraziata!...
Io lo so per prova!... e te lo posso dire! Verrà un giorno che piangerai
anche tu, come oggi piango io... ma allora sarà tardi!... -
A queste parole bisbigliate sommessamente, il burattino, spaventato
piú che mai, saltò giú dalla groppa della cavalcatura, e andò a prendere
il suo ciuchino per il muso.
E immaginatevi come restò, quando s'accòrse che il suo ciuchino piangeva...
e piangeva proprio come un ragazzo!
- Ehi, signor Omino, - gridò allora Pinocchio al padrone del carro -
sapete che cosa c'è di nuovo? Questo ciuchino piange.
- Lascialo piangere: riderà quando sarà sposo.
- Ma che forse gli avete insegnato anche a parlare?
- No: ha imparato da sé a borbottare qualche parola, essendo stato tre
anni in una compagnia di cani ammaestrati.
- Povera bestia!...
- Via, via - disse l'Omino - non perdiamo il nostro tempo a veder piangere
un ciuco. Rimonta a cavallo, e andiamo: la nottata è fresca e la strada
è lunga. -
Pinocchio obbedí senza rifiatare. Il carro riprese la sua corsa: e la
mattina, sul far dell'alba, arrivarono felicemente nel "Paese dei
balocchi".
Questo paese non somigliava a nessun altro paese del mondo. La sua popolazione
era tutta composta di ragazzi. I piú vecchi avevano anni: i piú giovani
ne avevano appena. Nelle strade, un'allegria, un chiasso, uno strillío
da levar di cervello! Branchi di monelli da per tutto: chi giocava alle
noci, chi alle piastrelle, chi alla palla, chi andava in velocipede,
chi sopra un cavallino di legno: questi facevano a mosca-cieca, quegli
altri si rincorrevano: altri, vestiti da pagliacci, mangiavano la stoppa
accesa: chi recitava, chi cantava, chi faceva i salti mortali, chi si
divertiva a camminare colle mani in terra e colle gambe in aria: chi
mandava il cerchio, chi passeggiava vestito da generale coll'elmo di
foglio e lo squadrone di cartapesta: chi rideva, chi urlava, chi chiamava,
chi batteva le mani, chi fischiava, chi rifaceva il verso alla gallina
quando ha fatto l'ovo: insomma un tal pandemonio, un tal passeraio,
un tal baccano indiavolato, da doversi mettere il cotone negli orecchi
per non rimanere assorditi. Su tutte le piazze si vedevano teatrini
di tela, affollati di ragazzi dalla mattina alla sera, e su tutti i
muri delle case si leggevano scritte col carbone delle bellissime cose
come queste: viva i balocci! (invece di balocchi): non vogliamo piú
schole (invece di non vogliamo piú scuole): abbasso Larin Metica (invece
di l'aritmetica) e altri fiori consimili.
Pinocchio, Lucignolo e tutti gli altri ragazzi, che avevano fatto il
viaggio coll'Omino, appena ebbero messo il piede dentro la città, si
ficcarono subito in mezzo alla gran baraonda, e in pochi minuti, com'è
facile immaginarselo, diventarono gli amici di tutti. Chi piú felice,
chi piú contento di loro?
In mezzo ai continui spassi e agli svariati divertimenti, le ore, i
giorni, le settimane passavano come tanti baleni.
- Oh! che bella vita! - diceva Pinocchio tutte le volte che per caso
s'imbatteva in Lucignolo.
- Vedi, dunque, se avevo ragione? - ripigliava quest'ultimo. - E dire
che tu non volevi partire! E pensare che t'eri messo in capo di tornartene
a casa dalla tua Fata, per prendere il tempo a studiare!... Se oggi
ti sei liberato dalla noia dei libri e delle scuole, lo devi a me, ai
miei consigli, alle mie premure, ne convieni? Non vi sono che i veri
amici che sappiano rendere di questi grandi favori.
- È vero, Lucignolo! Se oggi io sono un ragazzo veramente contento,
è tutto merito tuo. E il maestro, invece, sai che cosa mi diceva, parlando
di te? Mi diceva sempre: - Non praticare quella birba di Lucignolo,
perché Lucignolo è un cattivo compagno e non può consigliarti altro
che a far del male!...
- Povero maestro! - replicò l'altro tentennando il capo. - Lo so pur
troppo che mi aveva a noia, e che si divertiva sempre a calunniarmi;
ma io sono generoso e gli perdono!
- Anima grande! - disse Pinocchio, abbracciando affettuosamente l'amico
e dandogli un bacio in mezzo agli occhi.
Intanto era già da cinque mesi che durava questa bella cuccagna di baloccarsi
e di divertirsi le giornate intere, senza mai vedere in faccia né un
libro, né una scuola; quando una mattina Pinocchio, svegliandosi, ebbe,
come si suol dire, una gran brutta sorpresa, che lo messe proprio di
malumore.
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XXXII
A
Pinocchio gli vengono gli orecchi di ciuco, e poi diventa
un ciuchino vero e comincia a ragliare.
- E questa sorpresa quale fu?
- Ve lo dirò io, miei cari e piccoli lettori: la sorpresa fu che a Pinocchio,
svegliandosi, gli venne fatto naturalmente di grattarsi il capo; e nel
grattarsi il capo si accòrse...
Indovinate un po' di che cosa si accòrse?
Si accòrse con suo grandissimo stupore, che gli orecchi gli erano cresciuti
piú d'un palmo.
Voi sapete che il burattino, fin dalla nascita, aveva gli orecchi piccini
piccini: tanto piccini che, a occhio nudo, non si vedevano neppure!
Immaginatevi dunque come restò, quando dové toccar con mano che i suoi
orecchi, durante la notte, erano cosí allungati, che parevano due spazzole
di padule.
Andò subito in cerca di uno specchio, per potersi vedere: ma non trovando
uno specchio, empí d'acqua la catinella del lavamano, e specchiandovisi
dentro, vide quel che non avrebbe mai voluto vedere: vide, cioè, la
sua immagine abbellita di un magnifico paio di orecchi asinini.
Lascio pensare a voi il dolore, la vergogna, e la disperazione del povero
Pinocchio!
Cominciò a piangere, a strillare, a battere la testa nel muro: ma quanto
piú si disperava, e piú i suoi orecchi crescevano, crescevano, crescevano
e diventavano pelosi verso la cima.
Al rumore di quelle grida acutissime, entrò nella stanza una bella Marmottina,
che abitava al piano di sopra: la quale, vedendo il burattino in cosí
grandi smanie, gli domandò premurosamente:
- Che cos'hai, mio caro casigliano?
- Sono malato, Marmottina mia, molto malato... e malato d'una malattia
che mi fa paura! Te ne intendi tu del polso?
- Un pochino.
- Senti dunque se per caso avessi la febbre. -
La Marmottina alzò la zampa destra davanti: e dopo aver tastato il polso
a Pinocchio, gli disse sospirando:
- Amico mio, mi dispiace doverti dare una cattiva notizia!...
- Cioè?
- Tu hai una gran brutta febbre!
- E che febbre sarebbe?
- È la febbre del somaro.
- Non la capisco questa febbre! - rispose il burattino, che l'aveva
pur troppo capita.
- Allora te la spiegherò io - soggiunse la Marmottina. - Sappi dunque
che fra due o tre ore tu non sarai piú né un burattino, né un ragazzo...
- E che cosa sarò?
- Fra due o tre ore, tu diventerai un ciuchino vero e proprio, come
quelli che tirano il carretto e che portano i cavoli e l'insalata al
mercato.
- Oh! povero me! povero me! - gridò Pinocchio pigliandosi con le mani
tutt'e due gli orecchi, e tirandoli e strapazzandoli rabbiosamente,
come se fossero gli orecchi di un altro.
- Caro mio, - replicò la Marmottina per consolarlo - che cosa ci vuoi
tu fare? Oramai è destino. Oramai è scritto nei decreti della sapienza,
che tutti quei ragazzi svogliati che, pigliando a noia i libri, le scuole
e i maestri, passano le loro giornate in balocchi, in giochi e in divertimenti,
debbano finire prima o poi col trasformarsi in tanti piccoli somari.
- Ma davvero è proprio cosí? - domandò singhiozzando il burattino.
- Pur troppo è cosí! E ora i pianti sono inutili. Bisognava pensarci
prima!
- Ma la colpa non è mia: la colpa, credilo, Marmottina, è tutta di Lucignolo!...
- E chi è questo Lucignolo?
- Un mio compagno di scuola. Io volevo tornare a casa: io volevo essere
ubbidiente: io volevo seguitare a studiare e a farmi onore... ma Lucignolo
mi disse: - "Perché vuoi tu annoiarti a studiare? perché vuoi andare
alla scuola?... Vieni piuttosto con me, nel Paese dei balocchi: lí non
studieremo piú; lí ci divertiremo dalla mattina alla sera e staremo
sempre allegri".
- E perché seguisti il consiglio di quel falso amico? di quel cattivo
compagno?
- Perché?... perché, Marmottina mia, io sono un burattino senza giudizio...
e senza cuore. Oh! se avessi avuto un zinzino di cuore, non avrei mai
abbandonata quella buona Fata, che mi voleva bene come una mamma e che
aveva fatto tanto per me!... e a quest'ora non sarei piú un burattino...
ma sarei invece un ragazzino ammodo, come ce n'è tanti! Oh!... ma se
incontro Lucignolo, guai a lui! Gliene voglio dire un sacco e una sporta!...
-
E fece l'atto di volere uscire. Ma quando fu sulla porta, si ricordò
che aveva gli orecchi d'asino, e vergognandosi di mostrarli in pubblico,
che cosa inventò? Prese un gran berretto di cotone, e, ficcatoselo in
testa, se lo ingozzò fin sotto la punta del naso.
Poi uscí: e si dètte a cercare Lucignolo da per tutto. Lo cercò nelle
strade, nelle piazze, nei teatrini, in ogni luogo: ma non lo trovò.
Ne chiese notizia a quanti incontrò per la via, ma nessuno l'aveva veduto.
Allora andò a cercarlo a casa: e arrivato alla porta, bussò.
- Chi è? - domandò Lucignolo di dentro.
- Sono io! - rispose il burattino.
- Aspetta un poco, e ti aprirò. -
Dopo mezz'ora la porta si aprí: e figuratevi come restò Pinocchio quando,
entrando nella stanza, vide il suo amico Lucignolo con un gran berretto
di cotone in testa, che gli scendeva fin sotto il naso.
Alla vista di quel berretto, Pinocchio sentí quasi consolarsi e pensò
subito dentro di sé:
- Che l'amico sia malato della mia medesima malattia? Che abbia anche
lui la febbre del ciuchino?... -
E facendo finta di non essersi accorto di nulla, gli domandò sorridendo:
- Come stai, mio caro Lucignolo?
- Benissimo: come un topo in una forma di cacio parmigiano.
- Lo dici proprio sul serio?
- E perché dovrei dirti una bugia?
- Scusami, amico: e allora perché tieni in capo codesto berretto di
cotone che ti cuopre tutti gli orecchi?
- Me l'ha ordinato il medico, perché mi son fatto male a un ginocchio.
E tu, caro Pinocchio, perché porti codesto berretto di cotone ingozzato
fin sotto il naso?
- Me l'ha ordinato il medico, perché mi sono sbucciato un piede.
- Oh! povero Pinocchio!...
- Oh! povero Lucignolo!...
A queste parole tenne dietro un lunghissimo silenzio, durante il quale
i due amici non fecero altro che guardarsi fra loro in atto di canzonatura.
Finalmente il burattino, con una vocina melliflua e flautata, disse
al suo compagno:
- Levami una curiosità, mio caro Lucignolo: hai mai sofferto di malattia
agli orecchi?
- Mai!... E tu?
- Mai! Per altro da questa mattina in poi ho un orecchio che mi fa spasimare.
- Ho lo stesso male anch'io.
- Anche tu?... E qual è l'orecchio che ti duole?
- Tutti e due. E tu?
- Tutti e due. Che sia la medesima malattia?
- Ho paura di sí.
- Vuoi farmi un piacere, Lucignolo?
- Volentieri! Con tutto il cuore.
- Mi fai vedere i tuoi orecchi?
- Perché no? Ma prima voglio vedere i tuoi, caro Pinocchio.
- No: il primo devi essere tu.
- No, carino! Prima tu, e dopo io!
- Ebbene, - disse allora il burattino - facciamo un patto da buoni amici.
- Sentiamo il patto.
- Leviamoci tutti e due il berretto nello stesso tempo: accetti?
- Accetto.
- Dunque attenti!
E Pinocchio cominciò a contare a voce alta:
- Uno! Due! Tre! -
Alla parola tre! i due ragazzi presero i loro berretti di capo e li
gettarono in aria.
E allora avvenne una scena, che parrebbe incredibile, se non fosse vera.
Avvenne, cioè, che Pinocchio e Lucignolo, quando si videro colpiti tutti
e due dalla medesima disgrazia, invece di restar mortificati e dolenti,
cominciarono ad ammiccarsi i loro orecchi smisuratamente cresciuti,
e dopo mille sguaiataggini finirono col dare in una bella risata.
E risero, risero, risero da doversi reggere il corpo: se non che, sul
piú bello del ridere, Lucignolo tutt'a un tratto si chetò, e barcollando
e cambiando di colore, disse all'amico:
- Aiuto, aiuto, Pinocchio!
- Che cos'hai?
- Ohimè! non mi riesce piú di star ritto sulle gambe.
- Non mi riesce piú neanche a me - gridò Pinocchio, piangendo e traballando.
E mentre dicevano cosí, si piegarono tutti e due carponi a terra e,
camminando con le mani e coi piedi, cominciarono a girare e a correre
per la stanza. E intanto che correvano, i loro bracci diventarono zampe,
i loro visi si allungarono e diventarono musi, e le loro schiene si
coprirono di un pelame grigiolino chiaro brizzolato di nero.
Ma il momento piú brutto per que' due sciagurati sapete quando fu? Il
momento piú brutto e piú umiliante fu quello quando sentirono spuntarsi
di dietro la coda. Vinti allora dalla vergogna e dal dolore, si provarono
a piangere e a lamentarsi del loro destino.
Non l'avessero mai fatto! Invece di gemiti e di lamenti, mandavano fuori
dei ragli asinini; e ragliando sonoramente, facevano tutti e due in
coro: j-a, j-a, j-a.
In quel frattempo fu bussato alla porta, e una voce di fuori disse:
- Aprite! Sono l'Omino, sono il conduttore del carro che vi portò in
questo paese. Aprite subito, o guai a voi! -
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XXXIII
Diventato
un ciuchino vero, è portato a vendere, e lo compra il Direttore di una
compagnia di pagliacci, per insegnargli a ballare e a saltare i cerchi:
ma una sera azzoppisce e allora lo ricompra un altro, per far con la
sua pelle un tamburo.
Vedendo che la porta non si apriva,
l'Omino la spalancò con un violentissimo calcio: ed entrato nella stanza,
disse col suo solito risolino a Pinocchio e a Lucignolo:
- Bravi ragazzi! Avete ragliato bene, e io vi ho subito riconosciuti
alla voce. E per questo eccomi qui. -
A tali parole, i due ciuchini rimasero mogi mogi, colla testa giú, con
gli orecchi bassi e con la coda fra le gambe.
Da principio l'Omino li lisciò, li accarezzò, li palpeggiò: poi, tirata
fuori la striglia, cominciò a strigliarli per bene. E quando a furia
di strigliarli, li ebbe fatti lustri come due specchi, allora messe
loro la cavezza e li condusse sulla piazza del mercato, con la speranza
di venderli e di beccarsi un discreto guadagno.
E i compratori, difatti, non si fecero aspettare.
Lucignolo fu comprato da un contadino, a cui era morto il somaro il
giorno avanti, e Pinocchio fu venduto al Direttore di una compagnia
di pagliacci e di saltatori di corda, il quale lo comprò per ammaestrarlo
e per farlo poi saltare e ballare insieme con le altre bestie della
compagnia.
E ora avete capito, miei piccoli lettori, qual era il bel mestiere che
faceva l'Omino? Questo brutto mostriciattolo, che aveva la fisonomia
tutta di latte e miele, andava di tanto in tanto con un carro a girare
per il mondo: strada facendo raccoglieva con promesse e con moine tutti
i ragazzi svogliati, che avevano a noia i libri e le scuole: e dopo
averli caricati sul suo carro, li conduceva nel "Paese dei balocchi"
perché passassero tutto il loro tempo in giochi, in chiassate e in divertimenti.
Quando poi quei poveri ragazzi illusi, a furia di baloccarsi sempre
e di non studiar mai, diventavano tanti ciuchini, allora tutto allegro
e contento s'impadroniva di loro e li portava a vendere sulle fiere
e su i mercati. E cosí in pochi anni aveva fatto fior di quattrini ed
era diventato milionario.
Quel che accadesse di Lucignolo, non lo so: so, per altro, che Pinocchio
andò incontro fin dai primi giorni a una vita durissima e strapazzata.
Quando fu condotto nella stalla, il nuovo padrone gli empí la greppia
di paglia: ma Pinocchio, dopo averne assaggiata una boccata, la risputò.
Allora il padrone, brontolando, gli empí la greppia di fieno: ma neppure
il fieno gli piacque.
- Ah! non ti piace neppure il fieno? - gridò il padrone imbizzito. -
Lascia fare, ciuchino bello, che se hai dei capricci per il capo, penserò
io a levarteli!... -
E a titolo di correzione, gli affibbiò subito una frustata nelle gambe.
Pinocchio, dal gran dolore, cominciò a piangere e a ragliare, e ragliando
disse:
- J-a, j-a, la paglia non la posso digerire!...
- Allora mangia il fieno! - replicò il padrone, che intendeva benissimo
il dialetto asinino.
- J-a, j-a, il fieno mi fa dolere il corpo!...
- Pretenderesti, dunque, che un somaro, par tuo, lo dovessi mantenere
a petti di pollo e cappone in galantina? - soggiunse il padrone arrabbiandosi
sempre piú, e affibbiandogli una seconda frustata.
A quella seconda frustata Pinocchio, per prudenza, si chetò subito e
non disse altro.
Intanto la stalla fu chiusa e Pinocchio rimase solo: e perché erano
molte ore che non aveva mangiato, cominciò a sbadigliare dal grande
appetito. E, sbadigliando, spalancava la bocca che pareva un forno.
Alla fine, non trovando altro nella greppia, si rassegnò a masticare
un po' di fieno: e dopo averlo masticato ben bene, chiuse gli occhi
e lo tirò giú.
- Questo fieno non è cattivo - poi disse dentro di sé - ma quanto sarebbe
stato meglio che avessi continuato a studiare!... A quest'ora, invece
di fieno, potrei mangiare un cantuccio di pan fresco e una bella fetta
di salame! Pazienza!... -
La mattina dopo, svegliandosi, cercò subito nella greppia un altro po'
di fieno; ma non lo trovò, perché l'aveva mangiato tutto nella notte.
Allora prese una boccata di paglia tritata; e in quel mentre che la
stava masticando, si dové persuadere che il sapore della paglia tritata
non somigliava punto né al risotto alla milanese né ai maccheroni alla
napoletana.
- Pazienza! - ripeté, continuando a masticare. - Che almeno la mia disgrazia
possa servire di lezione a tutti i ragazzi disobbedienti e che non hanno
voglia di studiare. Pazienza!... pazienza!...
- Pazienza un corno! - urlò il padrone, entrando in quel momento nella
stalla. - Credi forse, mio bel ciuchino, ch'io ti abbia comprato unicamente
per darti da bere e da mangiare? Io ti ho comprato perché tu lavori
e perché tu mi faccia guadagnare molti quattrini. Su, dunque, da bravo!
Vieni con me nel Circo e là ti insegnerò a saltare i cerchi, a rompere
col capo le botti di foglio e a ballare il valzer e la polca, stando
ritto sulle gambe di dietro. -
Il povero Pinocchio, o per amore o per forza, dové imparare tutte queste
bellissime cose; ma, per impararle, gli ci vollero tre mesi di lezioni,
e molte frustate da levare il pelo.
Venne finalmente il giorno, in cui il suo padrone poté annunziare uno
spettacolo veramente straordinario. I cartelloni di vario colore, attaccati
alle cantonate delle strade, dicevano cosí:
Quella sera, come potete figurarvelo, un'ora prima che cominciasse lo
spettacolo, il teatro era pieno stipato.
Non si trovava piú né una poltrona, né un posto distinto, né un palco,
nemmeno a pagarlo a peso d'oro.
Le gradinate del Circo formicolavano di bambini, di bambine e di ragazzi
di tutte le età, che avevano la febbre addosso per la smania di veder
ballare il famoso ciuchino Pinocchio.
Finita la prima parte dello spettacolo, il Direttore della compagnia,
vestito in giubba nera, calzoni bianchi a coscia e stivaloni di pelle
fin sopra ai ginocchi, si presentò all'affollatissimo pubblico e, fatto
un grande inchino, recitò con molta solennità il seguente sprositato
discorso:
"Rispettabile pubblico, cavalieri e dame!
"L'umile sottoscritto essendo di passaggio per questa illustre
metropolitana, ho voluto procrearmi l'onore nonché il piacere di presentare
a questo intelligente e cospicuo uditorio un celebre ciuchino, che ebbe
già l'onore di ballare al cospetto di Sua Maestà l'imperatore di tutte
le principali Corti d'Europa.
"E col ringraziandoli, aiutateci della vostra animatrice presenza
e compatiteci!"
Questo discorso fu accolto da molte risate e da molti applausi; ma gli
applausi raddoppiarono e diventarono una specie di uragano alla comparsa
del ciuchino Pinocchio in mezzo al Circo. Egli era tutto agghindato
a festa. Aveva una briglia nuova di pelle lustra, con fibbie e borchie
d'ottone; due camelie bianche agli orecchi: la criniera divisa in tanti
riccioli legati con fiocchettini di seta rossa: una gran fascia d'oro
e d'argento attraverso alla vita, e la coda tutta intrecciata con nastri
di velluto paonazzo e celeste. Era insomma un ciuchino da innamorare!
Il Direttore, nel presentarlo al pubblico, aggiunse queste parole:
"Miei rispettabili auditori! Non starò qui a farvi menzogna delle
grandi difficoltà da me soppressate per comprendere e soggiogare questo
mammifero, mentre pascolava liberamente di montagna in montagna nelle
pianure della zona torrida. Osservate, vi prego, quanta selvaggina trasudi
da' suoi occhi, conciossiaché essendo riusciti vanitosi tutti i mezzi
per addomesticarlo al vivere dei quadrupedi civili, ho dovuto piú volte
ricorrere all'affabile dialetto della frusta. Ma ogni mia gentilezza,
invece di farmi da lui benvolere, me ne ha maggiormente cattivato l'animo.
Io però, seguendo il sistema di Galles, trovai nel suo cranio una piccola
cartagine ossea, che la stessa Facoltà medicea di Parigi riconobbe esser
quello il bulbo rigeneratore dei capelli e della danza pirrica. E per
questo io lo volli ammaestrare nel ballo, nonché nei relativi salti
dei cerchi e delle botti foderate di foglio. Ammiratelo! e poi giudicatelo!
Prima però di prendere cognato da voi, permettete, o signori, che io
vi inviti al diurno spettacolo di domani sera: ma nell'apoteosi che
il tempo piovoso minacciasse acqua, allora lo spettacolo, invece di
domani sera, sarà posticipato a domattina, alle ore antimeridiane del
pomeriggio".
E qui il Direttore fece un'altra profondissima riverenza: quindi volgendosi
a Pinocchio, gli disse:
- Animo, Pinocchio! Avanti di dar principio ai vostri esercizi, salutate
questo rispettabile pubblico, cavalieri, dame e ragazzi! -
Pinocchio, ubbidiente, piegò subito i due ginocchi davanti, e rimase
inginocchiato fino a tanto che il Direttore, schioccando la frusta,
non gli gridò:
- Al passo! -
Allora il ciuchino si rizzò sulle quattro gambe, e cominciò a girare
intorno al Circo, camminando sempre di passo.
Dopo un poco il Direttore gridò:
- Al trotto! - e Pinocchio, ubbidiente al comando, cambiò il passo in
trotto.
- Al galoppo! - e Pinocchio staccò il galoppo.
- Alla carriera! - e Pinocchio si dètte a correre di gran carriera.
Ma in quella che correva come un barbero, il Direttore, alzando il braccio
in aria, scaricò un colpo di pistola.
A quel colpo il ciuchino, fingendosi ferito, cadde disteso nel Circo,
come se fosse moribondo davvero.
Rizzatosi da terra in mezzo a uno scoppio di applausi, d'urli e di battimani,
che andavano alle stelle, gli venne fatto naturalmente di alzare la
testa e di guardare in su... e guardando, vide in un palco una bella
signora, che aveva al collo una grossa collana d'oro dalla quale pendeva
un medaglione. Nel medaglione c'era dipinto il ritratto d'un burattino.
- Quel ritratto è il mio!... quella signora è la Fata! - disse dentro
di sé Pinocchio, riconoscendola subito: e lasciandosi vincere dalla
gran contentezza, si provò a gridare:
- Oh Fatina mia! oh Fatina mia!... -
Ma invece di queste parole, gli uscí dalla gola un raglio cosí sonoro
e prolungato, che fece ridere tutti gli spettatori, e segnatamente tutti
i ragazzi che erano in teatro.
Allora il Direttore, per insegnargli e per fargli intendere che non
è buona creanza di mettersi a ragliare in faccia al pubblico, gli diè
col manico della frusta una bacchettata sul naso.
Il povero ciuchino, tirato fuori un palmo di lingua, durò a leccarsi
il naso almeno cinque minuti, credendo forse cosí di rasciugarsi il
dolore che aveva sentito.
Ma quale fu la sua disperazione quando, voltandosi in su una seconda
volta, vide che il palco era vuoto e che la Fata era sparita!...
Si sentí come morire: gli occhi gli si empirono di lacrime e cominciò
a piangere dirottamente. Nessuno però se ne accòrse, e, meno degli altri,
il Direttore, il quale, anzi, schioccando la frusta, gridò:
- Da bravo, Pinocchio! Ora farete vedere a questi signori con quanta
grazia sapete saltare i cerchi. -
Pinocchio si provò due o tre volte: ma ogni volta che arrivava davanti
al cerchio, invece di attraversarlo, ci passava piú comodamente di sotto.
Alla fine spiccò un salto e l'attraversò: ma le gambe di dietro gli
rimasero disgraziatamente impigliate nel cerchio: motivo per cui ricadde
in terra dall'altra parte tutto in un fascio.
Quando si rizzò, era azzoppito, e a malapena poté ritornare alla scuderia.
- Fuori Pinocchio! Vogliamo il ciuchino! Fuori il ciuchino! - gridavano
i ragazzi dalla platea, impietositi e commossi al tristissimo caso.
Ma il ciuchino per quella sera non si fece piú rivedere.
La mattina dopo il veterinario, ossia il medico delle bestie, quando
l'ebbe visitato, dichiarò che sarebbe rimasto zoppo per tutta la vita.
Allora il Direttore disse al suo garzone di stalla:
- Che vuoi tu che mi faccia d'un somaro zoppo? Sarebbe un mangiapane
a ufo. Portalo dunque in piazza e rivendilo. -
Arrivati in piazza, trovarono subito il compratore, il quale domandò
al garzone di stalla:
- Quanto vuoi di codesto ciuchino zoppo?
- Venti lire.
- Io ti do venti soldi. Non credere che io lo compri per servirmene:
lo compro unicamente per la sua pelle. Vedo che ha la pelle molto dura,
e con la sua pelle voglio fare un tamburo per la banda musicale del
mio paese. -
Lascio pensare a voi, ragazzi, il bel piacere che fu per il povero Pinocchio,
quando sentí che era destinato a diventare un tamburo!
Fatto sta che il compratore, appena pagati i venti soldi, condusse il
ciuchino sulla riva del mare; e messogli un sasso al collo e legatolo
per una zampa con una fune che teneva in mano, gli diè improvvisamente
uno spintone e lo gettò nell'acqua.
Pinocchio, con quel macigno al collo, andò subito a fondo: e il compratore,
tenendo sempre stretta in mano la fune, si pose a sedere sopra uno scoglio,
aspettando che il ciuchino avesse tutto il tempo di morire affogato,
per poi scorticarlo e levargli la pelle.
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XXXIV
Pinocchio,
gettato in mare, è mangiato dai pesci e ritorna ad essere un burattino
come prima:
ma mentre nuota per salvarsi, è ingojato dal terribile Pesce-cane.
Dopo cinquanta minuti che il
ciuchino era sott'acqua, il compratore disse, discorrendo da sé solo:
- A quest'ora il mio povero ciuchino zoppo deve essere bell'e affogato.
Ritiriamolo dunque su, e facciamo con la sua pelle questo bel tamburo.
-
E cominciò a tirare la fune, con la quale lo aveva legato per una gamba:
e tira, tira, tira, alla fine vide apparire a fior d'acqua... indovinate?
Invece di un ciuchino morto, vide apparire a fior d'acqua un burattino
vivo, che scodinzolava come un'anguilla.
Vedendo quel burattino di legno, il pover'uomo credé di sognare e rimase
lí intontito, a bocca aperta e con gli occhi fuori della testa.
Riavutosi un poco dal suo primo stupore, disse piangendo e balbettando:
- E il ciuchino che ho gettato in mare dov'è?...
- Quel ciuchino son io! - rispose il burattino, ridendo.
- Tu?
- Io.
- Ah! mariuolo! Pretenderesti forse di burlarti di me?
- Burlarmi di voi? Tutt'altro, caro padrone: io vi parlo sul serio.
- Ma come mai tu, che poco fa eri un ciuchino, ora stando nell'acqua,
sei diventato un burattino di legno?...
- Sarà effetto dell'acqua del mare. Il mare ne fa di questi scherzi.
- Bada burattino, bada!... Non credere di divertirti alle mie spalle!
Guai a te, se mi scappa la pazienza!
- Ebbene, padrone; volete sapere tutta la vera storia? Scioglietemi
questa gamba e io ve la racconterò. -
Quel buon pasticcione del compratore, curioso di conoscere la vera storia,
gli sciolse subito il nodo della fune, che lo teneva legato: e allora
Pinocchio, trovandosi libero come un uccello nell'aria, prese a dirgli
cosí:
- Sappiate dunque che io ero un burattino di legno, come sono oggi:
ma mi trovavo a tocco e non tocco di diventare un ragazzo, come in questo
mondo ce n'è tanti: se non che per la mia poca voglia di studiare e
per dar retta ai cattivi compagni, scappai di casa... e un bel giorno,
svegliandomi, mi trovai cambiato in un somaro con tanto d'orecchi...
e con tanto di coda!... Che vergogna fu quella per me!... Una vergogna,
caro padrone, che Sant'Antonio benedetto non la faccia provare neppure
a voi! Portato a vendere sul mercato degli asini, fui comprato dal Direttore
di una compagnia equestre, il quale si messe in capo di far di me un
gran ballerino e un gran saltatore di cerchi: ma una sera, durante lo
spettacolo, feci in teatro una brutta cascata e rimasi zoppo da tutt'e
due le gambe. Allora il Direttore, non sapendo che cosa farsi d'un asino
zoppo, mi mandò a rivendere, e voi mi avete comprato!...
- Pur troppo! E ti ho pagato venti soldi. E ora chi mi rende i miei
poveri venti soldi?
- E perché mi avete comprato? Voi mi avete comprato per fare con la
mia pelle un tamburo!... un tamburo!...
- Pur troppo! E ora dove troverò un'altra pelle?...
- Non vi date alla disperazione, padrone. Dei ciuchini ce n'è tanti
in questo mondo!
- Dimmi, monello impertinente; e la tua storia finisce qui?
- No - rispose il burattino - ci sono altre due parole, e poi è finita.
Dopo avermi comprato, mi avete condotto in questo luogo per uccidermi,
ma poi, cedendo a un sentimento pietoso d'umanità, avete preferito di
legarmi un sasso al collo e di gettarmi in fondo al mare. Questo sentimento
di delicatezza vi onora moltissimo e io ve ne serberò eterna riconoscenza.
Per altro, caro padrone, questa volta avete fatto i vostri conti senza
la Fata...
- E chi è questa Fata?
- È la mia mamma, la quale somiglia a tutte quelle buone mamme, che
vogliono un gran bene ai loro ragazzi, e non li perdono mai d'occhio,
e li assistono amorosamente in ogni disgrazia, anche quando questi ragazzi,
per le loro scapataggini e per i loro cattivi portamenti, meriterebbero
di esser abbandonati e lasciati in balía a sé stessi. Dicevo, dunque,
che la buona Fata, appena mi vide in pericolo di affogare, mandò subito
intorno a me un branco infinito di pesci, i quali credendomi davvero
un ciuchino bell'e morto, cominciarono a mangiarmi! E che bocconi che
facevano! Non avrei mai creduto che i pesci fossero piú ghiotti anche
dei ragazzi!... Chi mi mangiò gli orecchi, chi mi mangiò il muso, chi
il collo e la criniera, chi la pelle delle zampe, chi la pelliccia della
schiena... e, fra gli altri, vi fu un pesciolino cosí garbato, che si
degnò perfino di mangiarmi la coda.
- Da oggi in poi - disse il compratore inorridito - faccio giuro di
non assaggiar piú carne di pesce. Mi dispiacerebbe troppo di aprire
una triglia o un nasello fritto e di trovargli in corpo una coda di
ciuco!
- Io la penso come voi - replicò il burattino, ridendo. - Del resto,
dovete sapere che quando i pesci ebbero finito di mangiarmi tutta quella
buccia asinina, che mi copriva dalla testa ai piedi, arrivarono, com'è
naturale, all'osso... o per dir meglio, arrivarono al legno, perché,
come vedete, io son fatto di legno durissimo. Ma dopo dati i primi morsi,
quei pesci ghiottoni si accòrsero subito che il legno non era ciccia
per i loro denti, e nauseati da questo cibo indigesto se ne andarono
chi in qua, chi in là, senza voltarsi nemmeno a dirmi grazie. Ed eccovi
raccontato come qualmente voi, tirando su la fune, avete trovato un
burattino vivo, invece d'un ciuchino morto.
- Io mi rido della tua storia - gridò il compratore imbestialito. -
Io so che ho speso venti soldi per comprarti, e rivoglio i miei quattrini.
Sai che cosa farò? Ti porterò daccapo al mercato, e ti rivenderò a peso
di legno stagionato per accendere il fuoco nel caminetto.
- Rivendetemi pure: io sono contento - disse Pinocchio.
Ma nel dir cosí, fece un bel salto e schizzò in mezzo all'acqua. E nuotando
allegramente e allontanandosi dalla spiaggia, gridava al povero compratore:
- Addio, padrone; se avete bisogno di una pelle per fare un tamburo,
ricordatevi di me. -
E poi rideva e seguitava a nuotare: e dopo un poco, rivoltandosi indietro,
urlava piú forte:
- Addio, padrone; se avete bisogno di un po' di legno stagionato per
accendere il caminetto, ricordatevi di me. -
Fatto sta che in un batter d'occhio si era tanto allontanato, che non
si vedeva quasi piú; ossia, si vedeva solamente sulla superficie del
mare un puntolino nero, che di tanto in tanto rizzava le gambe fuori
dell'acqua e faceva capriòle e salti, come un delfino in vena di buon
umore.
Intanto che Pinocchio nuotava alla ventura, vide in mezzo al mare uno
scoglio che pareva di marmo bianco, e su in cima allo scoglio, una bella
caprettina che belava amorosamente e gli faceva segno di avvicinarsi.
La cosa piú singolare era questa: che la lana della caprettina, invece
di esser bianca, o nera, o pallata di piú colori, come quella delle
altre capre, era invece tutta turchina, ma d'un turchino cosí sfolgorante,
che rammentava moltissimo i capelli della bella Bambina.
Lascio pensare a voi se il cuore del povero Pinocchio cominciò a battere
piú forte! Raddoppiando di forza e di energia si diè a nuotare verso
lo scoglio bianco: ed era già a mezza strada, quand'ecco uscir fuori
dell'acqua e venirgli incontro un'orribile testa di mostro marino, con
la bocca spalancata come una voragine, e tre filari di zanne, che avrebbero
fatto paura anche a vederle dipinte.
E sapete chi era quel mostro marino?
Quel mostro marino era né piú né meno quel gigantesco Pesce-cane ricordato
piú volte in questa storia, e che per le sue stragi e per la sua insaziabile
voracità, veniva soprannominato "l'Attila dei pesci e dei pescatori".
Immaginatevi lo spavento del povero Pinocchio, alla vista del mostro.
Cercò di scansarlo, di cambiare strada: cercò di fuggire: ma quella
immensa bocca spalancata gli veniva sempre incontro con la velocità
di una saetta.
- Affrettati, Pinocchio, per carità! - gridava belando la bella caprettina.
E Pinocchio nuotava disperatamente con le braccia, col petto, con le
gambe e coi piedi.
- Corri, Pinocchio, perché il mostro si avvicina!... -
E Pinocchio, raccogliendo tutte le sue forze, raddoppiava di lena nella
corsa.
- Bada, Pinocchio!... il mostro ti raggiunge!... Eccolo!... Eccolo!...
Affrettati per carità, o sei perduto!... -
E Pinocchio a nuotare piú lesto che mai, e via, e via, e via, come anderebbe
una palla di fucile. E già si accostava allo scoglio, e già la caprettina,
spenzolandosi tutta sul mare, gli porgeva le sue zampine davanti per
aiutarlo a uscir fuori dell'acqua... Ma!...
Ma oramai era tardi! Il mostro lo aveva raggiunto. Il mostro, tirando
il fiato a sé, si bevve il povero burattino, come avrebbe bevuto un
uovo di gallina, e lo inghiottí con tanta violenza e con tanta avidità,
che Pinocchio, cascando giú in corpo al Pesce-cane, batté un colpo cosí
screanzato da restarne sbalordito per un quarto d'ora.
Quando ritornò in sé da quello sbigottimento, non sapeva raccapezzarsi,
nemmeno lui, in che mondo si fosse. Intorno a sé c'era da ogni parte
un gran buio: ma un buio cosí nero e profondo, che gli pareva di essere
entrato col capo in un calamaio pieno d'inchiostro.
Stette in ascolto e non sentí nessun rumore: solamente di tanto in tanto
sentiva battersi nel viso alcune grandi buffate di vento. Da principio
non sapeva intendere da dove quel vento uscisse: ma poi capí che usciva
dai polmoni del mostro. Perché bisogna sapere che il Pesce-cane soffriva
moltissimo d'asma, e quando respirava, pareva proprio che soffiasse
la tramontana.
Pinocchio, sulle prime, s'ingegnò di farsi un po' di coraggio: ma quand'ebbe
la prova e la riprova di trovarsi chiuso in corpo al mostro marino,
allora cominciò a piangere e a strillare; e piangendo diceva:
- Aiuto! aiuto! Oh povero me! Non c'è nessuno che venga a salvarmi?
- Chi vuoi che ti salvi, disgraziato?... - disse in quel buio una vociaccia
fessa di chitarra scordata.
- Chi è che parla cosí? - domandò Pinocchio, sentendosi gelare dallo
spavento.
- Sono io! sono un povero Tonno, inghiottito dal Pesce-cane insieme
con te. E tu che pesce sei?
- Io non ho che veder nulla coi pesci. Io sono un burattino.
- E allora, se non sei un pesce, perché ti sei fatto inghiottire dal
mostro?
- Non son io, che mi son fatto inghiottire: gli è lui che mi ha inghiottito!
Ed ora che cosa dobbiamo fare qui al buio?...
- Rassegnarsi e aspettare che il Pesce-cane ci abbia digeriti tutti
e due!...
- Ma io non voglio esser digerito! - urlò Pinocchio, ricominciando a
piangere.
- Neppure io vorrei esser digerito! - soggiunse il Tonno - ma io sono
abbastanza filosofo e mi consolo pensando che, quando si nasce Tonni,
c'è piú dignità a morir sott'acqua che sott'olio!...
- Scioccherie! - gridò Pinocchio.
- La mia è un'opinione - replicò il Tonno - e le opinioni, come dicono
i Tonni politici, vanno rispettate!
- Insomma... io voglio andarmene di qui... io voglio fuggire...
- Fuggi, se ti riesce!...
- È molto grosso questo Pesce-cane che ci ha inghiottiti? - domandò
il burattino.
- Figurati che il suo corpo è piú lungo di un chilometro senza contare
la coda. -
Nel tempo che facevano questa conversazione al buio, parve a Pinocchio
di veder lontan lontano una specie di chiarore.
- Che cosa sarà mai quel lumicino lontano lontano? - disse Pinocchio.
- Sarà qualche nostro compagno di sventura, che aspetterà come noi il
momento di esser digerito!...
- Voglio andare a trovarlo. Non potrebbe darsi il caso che fosse qualche
vecchio pesce capace d'insegnarmi la strada per fuggire?
- Io te l'auguro di cuore, caro burattino.
- Addio, Tonno.
- Addio, burattino: e buona fortuna.
- Dove ci rivedremo?...
- Chi lo sa?... È meglio non pensarci neppure! -
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XXXV
Pinocchio
ritrova in corpo al Pesce-cane... chi ritrova?
Leggete questo capitolo e lo saprete.
Pinocchio, appena che ebbe detto
addio al suo buon amico Tonno, si mosse brancolando in mezzo a quel
bujo, e camminando a tastoni dentro il corpo del Pesce-cane, si avviò
un passo dietro l'altro verso quel piccolo chiarore che vedeva baluginare
lontano lontano.
E nel camminare sentí che i suoi piedi sguazzavano in una pozzanghera
d'acqua grassa e sdrucciolona, e quell'acqua sapeva di un odore cosí
acuto di pesce fritto, che gli pareva d'essere a mezza quaresima.
E piú andava avanti, e piú il chiarore si faceva rilucente e distinto:
finché, cammina cammina, alla fine arrivò: e quando fu arrivato... che
cosa trovò? Ve lo do a indovinare in mille: trovò una piccola tavola
apparecchiata, con sopra una candela accesa infilata in una bottiglia
di cristallo verde, e seduto a tavola un vecchiettino tutto bianco,
come se fosse di neve o di panna montata, il quale se ne stava lí biascicando
alcuni pesciolini vivi, ma tanto vivi, che alle volte mentre li mangiava,
gli scappavano perfino di bocca.
A quella vista il povero Pinocchio ebbe un'allegrezza cosí grande e
cosí inaspettata, che ci mancò un ette non cadesse in delirio. Voleva
ridere, voleva piangere, voleva dire un monte di cose; e invece mugolava
confusamente e balbettava delle parole tronche e sconclusionate. Finalmente
gli riuscí di cacciar fuori un grido di gioja, e spalancando le braccia
e gettandosi al collo del vecchietto, cominciò a urlare:
- Oh! babbino mio! finalmente vi ho ritrovato! Ora poi non vi lascio
piú, mai piú, mai piú!
- Dunque gli occhi mi dicono il vero? - replicò il vecchietto stropicciandosi
gli occhi - Dunque tu se' proprio il mi' caro Pinocchio?
- Sí, sí, sono io, proprio io! E voi mi avete digià perdonato, non è
vero? Oh! babbino mio, come siete buono!... e pensare che io, invece...
Oh! ma se sapeste quante disgrazie mi son piovute sul capo e quante
cose mi sono andate a traverso! Figuratevi che il giorno che voi, povero
babbino, col vendere la vostra casacca, mi compraste l'Abbecedario per
andare a scuola, io scappai a vedere i burattini, e il burattinajo mi
voleva mettere sul fuoco perché gli cocessi il montone arrosto, che
fu quello poi che mi dètte cinque monete d'oro, perché le portassi a
voi, ma io trovai la Volpe e il Gatto, che mi condussero all'Osteria
del Gambero Rosso, dove mangiarono come lupi, e partito solo di notte
incontrai gli assassini che si messero a corrermi dietro, e io via,
e loro dietro, e io via, e loro sempre dietro, e io via, finché m'impiccarono
a un ramo della Quercia Grande, dovecché la bella Bambina dai capelli
turchini mi mandò a prendere con una carrozzina, e i medici, quando
m'ebbero visitato, dissero subito: - "Se non è morto, è segno che
è sempre vivo" - e allora mi scappò detta una bugia, e il naso
cominciò a crescermi e non mi passava piú dalla porta di camera, motivo
per cui andai con la Volpe e col Gatto a sotterrare le quattro monete
d'oro, che una l'avevo spesa all'Osteria, e il pappagallo si messe a
ridere, e viceversa di duemila monete non trovai piú nulla, la quale
il Giudice quando seppe che ero stato derubato, mi fece subito mettere
in prigione, per dare una soddisfazione ai ladri, di dove, col venir
via, vidi un bel grappolo d'uva in un campo, che rimasi preso alla tagliola
e il contadino di santa ragione mi messe il collare da cane perché facessi
la guardia al pollajo, che riconobbe la mia innocenza e mi lasciò andare,
e il Serpente, colla coda che gli fumava, cominciò a ridere e gli si
strappò una vena sul petto, e cosí ritornai alla casa della bella Bambina,
che era morta, e il Colombo vedendo che piangevo mi disse: - "Ho
visto il tu' babbo che si fabbricava una barchettina per venirti a cercare"
- e io gli dissi - "Oh! se avessi l'ali anch'io" - e lui mi
disse - "Vuoi venire dal tuo babbo?" - e io gli dissi - "Magari!
ma chi mi ci porta?" - e lui mi disse - "Ti ci porto io"
- e io gli dissi - "Come?" - e lui mi disse - "Montami
sulla groppa" - e cosí abbiamo volato tutta la notte, poi la mattina
tutti i pescatori che guardavano verso il mare mi dissero - "C'è
un pover'omo in una barchetta che sta per affogare" - e io da lontano
vi riconobbi subito, perché me lo diceva il core, e vi feci segno di
tornare alla spiaggia...
- Ti riconobbi anch'io - disse Geppetto - e sarei volentieri tornato
alla spiaggia: ma come fare? Il mare era grosso e un cavallone m'arrovesciò
la barchetta. Allora un orribile Pesce-cane che era lí vicino, appena
che m'ebbe visto nell'acqua corse subito verso di me, e tirata fuori
la lingua, mi prese pari pari, e m'inghiottí come un tortellino di Bologna.
- E quant'è che siete chiuso qui dentro? - domandò Pinocchio.
- Da quel giorno in poi, saranno oramai due anni: due anni, Pinocchio
mio, che mi son parsi due secoli!
- E come avete fatto a campare? E dove avete trovata la candela? E i
fiammiferi per accenderla, chi ve li ha dati?
- Ora ti racconterò tutto. Devi dunque sapere che quella medesima burrasca,
che rovesciò la mia barchetta, fece anche affondare un bastimento mercantile.
I marinaj si salvarono tutti, ma il bastimento calò a fondo e il solito
Pesce-cane che quel giorno aveva un appetito eccellente, dopo avere
inghiottito me, inghiottí anche il bastimento...
- Come? Lo inghiottí tutto in un boccone?... - domandò Pinocchio maravigliato.
- Tutto in un boccone: e risputò solamente l'albero maestro, perché
gli era rimasto fra i denti come una lisca. Per mia gran fortuna, quel
bastimento era carico non solo di carne conservata in cassette di stagno,
ma di biscotto, ossia di pane abbrostolito, di bottiglie di vino, d'uva
secca, di cacio, di caffè, di zucchero, di candele steariche e di scatole
di fiammiferi di cera. Con tutta questa grazia di Dio ho potuto campare
due anni: ma oggi sono agli ultimi sgoccioli: oggi nella dispensa non
c'è piú nulla, e questa candela, che vedi accesa, è l'ultima candela
che mi sia rimasta...
- E dopo?...
- E dopo, caro mio, rimarremo tutt'e due al bujo.
- Allora, babbino mio - disse Pinocchio - non c'è tempo da perdere.
Bisogna pensar subito a fuggire...
- A fuggire?... e come?
- Scappando dalla bocca del Pesce-cane e gettandosi a nuoto in mare.
- Tu parli bene: ma io, caro Pinocchio, non so nuotare.
- E che importa?... Voi mi monterete a cavalluccio sulle spalle e io,
che sono un buon nuotatore, vi porterò sano e salvo fino alla spiaggia.
- Illusioni, ragazzo mio! - replicò Geppetto, scotendo il capo e sorridendo
malinconicamente. - Ti par egli possibile che un burattino, alto appena
un metro, come sei tu, possa aver tanta forza da portarmi a nuoto sulle
spalle?
- Provatevi e vedrete! A ogni modo se sarà scritto in cielo che dobbiamo
morire, avremo almeno la gran consolazione di morire abbracciati insieme.
-
E senza dir altro, Pinocchio prese in mano la candela, e andando avanti
per far lume, disse al suo babbo:
- Venite dietro a me, e non abbiate paura. -
E cosí camminarono un bel pezzo, e traversarono tutto il corpo e tutto
lo stomaco del Pesce-cane. Ma giunti al punto dove cominciava la spaziosa
gola del mostro, pensarono bene di fermarsi per dare un'occhiata e cogliere
il momento opportuno alla fuga.
Ora bisogna sapere che il Pesce-cane, essendo molto vecchio e soffrendo
d'asma e di palpitazione di cuore, era costretto a dormire a bocca aperta:
per cui Pinocchio, affacciandosi al principio della gola e guardando
in su, poté vedere al di fuori di quell'enorme bocca spalancata un bel
pezzo di cielo stellato e un bellissimo lume di luna.
- Questo è il vero momento di scappare - bisbigliò allora voltandosi
al suo babbo. - Il Pesce-cane dorme come un ghiro: il mare è tranquillo
e ci si vede come di giorno. Venite dunque, babbino, dietro a me, e
fra poco saremo salvi. -
Detto fatto, salirono su per la gola del mostro marino, e arrivati in
quell'immensa bocca, cominciarono a camminare in punta di piedi sulla
lingua; una lingua cosí larga e cosí lunga, che pareva il viottolone
d'un giardino. E già stavano lí lí per fare il gran salto e per gettarsi
a nuoto nel mare, quando, sul piú bello, il Pesce-cane starnutí, e nello
starnutire, dètte uno scossone cosí violento, che Pinocchio e Geppetto
si trovarono rimbalzati all'indietro e scaraventati novamente in fondo
allo stomaco del mostro.
Nel grand'urto della caduta la candela si spense, e padre e figliuolo
rimasero al bujo.
- E ora?... - domandò Pinocchio facendosi serio.
- Ora, ragazzo mio, siamo bell'e perduti.
- Perché perduti? Datemi la mano, babbino, e badate di non sdrucciolare!...
- Dove mi conduci?
- Dobbiamo ritentare la fuga. Venite con me e non abbiate paura. -
Ciò detto, Pinocchio prese il suo babbo per la mano: e camminando sempre
in punta di piedi, risalirono insieme su per la gola del mostro: poi
traversarono tutta la lingua e scavalcarono i tre filari di denti. Prima
però di fare il gran salto, il burattino disse al suo babbo:
- Montatemi a cavalluccio sulle spalle e abbracciatemi forte forte.
Al resto ci penso io. -
Appena Geppetto si fu accomodato per bene sulle spalle del figliolo,
il bravo Pinocchio, sicuro del fatto suo, si gettò nell'acqua e cominciò
a nuotare. Il mare era tranquillo come un olio: la luna splendeva in
tutto il suo chiarore e il Pesce-cane seguitava a dormire di un sonno
cosí profondo, che non l'avrebbe svegliato nemmeno una cannonata.
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XXXVI
Finalmente
Pinocchio cessa d'essere un burattino e diventa un ragazzo.
Mentre Pinocchio nuotava alla
svelta per raggiungere la spiaggia, si accòrse che il suo babbo, il
quale gli stava a cavalluccio sulle spalle e aveva le gambe mezze nell'acqua,
tremava fitto fitto, come se al pover'uomo gli battesse la febbre terzana.
Tremava di freddo o di paura? Chi lo sa?... Forse un po' dell'uno e
un po' dell'altra. Ma Pinocchio, credendo che quel tremito fosse di
paura, gli disse per confortarlo:
- Coraggio, babbo! Fra pochi minuti arriveremo a terra e saremo salvi.
- Ma dov'è questa spiaggia benedetta? - domandò il vecchietto, diventando
sempre piú inquieto, e appuntando gli occhi, come fanno i sarti quando
infilano l'ago. - Eccomi qui, che guardo da tutte le parti e non vedo
altro che cielo e mare.
- Ma io vedo anche la spiaggia - disse il burattino. - Per vostra regola
io sono come i gatti: ci vedo meglio di notte che di giorno. -
Il povero Pinocchio faceva finta di esser di buon umore: ma invece...
invece cominciava a scoraggirsi: le forze gli scemavano, il suo respiro
diventava grosso e affannoso... insomma non ne poteva piú, e la spiaggia
era sempre lontana.
Nuotò finché ebbe fiato: poi si voltò col capo verso Geppetto, e disse
con parole interrotte:
- Babbo mio... ajutatevi... perché io muojo!... -
E padre e figliuolo erano oramai sul punto di affogare, quando udirono
una voce di chitarra scordata che disse:
- Chi è che muore?
- Sono io e il mio povero babbo!
- Questa voce la riconosco! Tu sei Pinocchio!...
- Preciso: e tu?
- Io sono il Tonno, il tuo compagno di prigionia in corpo al Pesce-cane.
- E come hai fatto a scappare?
- Ho imitato il tuo esempio. Tu sei quello che mi hai insegnato la strada,
e dopo te, sono fuggito anch'io.
- Tonno mio, tu capiti proprio a tempo! Ti prego per l'amore che porti
ai Tonnini tuoi figliuoli: ajutaci, o siamo perduti.
- Volentieri e con tutto il cuore. Attaccatevi tutti e due alla mia
coda, e lasciatevi guidare. In quattro minuti vi condurrò alla riva.
-
Geppetto e Pinocchio, come potete immaginarvelo, accettarono subito
l'invito: ma invece di attaccarsi alla coda, giudicarono piú comodo
di mettersi addirittura a sedere sulla groppa del Tonno.
- Siamo troppo pesi? - gli domandò Pinocchio.
- Pesi? Neanche per ombra; mi par di avere addosso due gusci di conchi-
glia - rispose il Tonno, il quale era di una corporatura cosí grossa
e robusta, da parere un vitello di due anni.
Giunti alla riva, Pinocchio saltò a terra il primo, per ajutare il suo
babbo a fare altrettanto: poi si voltò al Tonno, e con voce commossa
gli disse:
- Amico mio, tu hai salvato il mio babbo! Dunque non ho parole per ringraziarti
abbastanza! Permetti almeno che ti dia un bacio, in segno di riconoscenza
eterna!... -
Il Tonno cacciò il muso fuori dell'acqua, e Pinocchio, piegandosi coi
ginocchi a terra, gli posò un affettuosissimo bacio sulla bocca. A questo
tratto di spontanea e vivissima tenerezza, il povero Tonno, che non
c'era avvezzo, si sentí talmente commosso, che vergognandosi a farsi
veder piangere come un bambino, ricacciò il capo sott'acqua e sparí.
Intanto s'era fatto giorno.
Allora Pinocchio, offrendo il suo braccio a Geppetto, che aveva appena
il fiato di reggersi in piedi, gli disse:
- Appoggiatevi pure al mio braccio, caro babbino, e andiamo. Cammineremo
pian pianino come le formicole, e quando saremo stanchi, ci riposeremo
lungo la via.
- E dove dobbiamo andare? - domandò Geppetto.
- In cerca di una casa o d'una capanna, dove ci diano per carità un
boccon di pane e un po' di paglia che ci serva da letto. -
Non avevano ancora fatti cento passi, che videro seduti sul ciglione
della strada due brutti ceffi, i quali stavano lí in atto di chiedere
l'elemosina.
Erano il Gatto e la Volpe: ma non si riconoscevano piú da quelli di
una volta. Figuratevi che il Gatto, a furia di fingersi cieco, aveva
finito coll'accecare davvero: e la Volpe invecchiata, intignata e tutta
perduta da una parte, non aveva piú nemmeno la coda. Cosí è. Quella
trista ladracchiola, caduta nella piú squallida miseria, si trovò costretta
un bel giorno a vendere perfino la sua bellissima coda a un merciajo
ambulante, che la comprò per farsene uno scacciamosche.
- O Pinocchio - gridò la Volpe con voce di piagnisteo - fai un po' di
carità a questi due poveri infermi.
- Infermi! - ripeté il Gatto.
- Addio, mascherine! - rispose il burattino. - Mi avete ingannato una
volta, e ora non mi ripigliate piú.
- Credilo, Pinocchio, che oggi siamo poveri e disgraziati davvero!
- Davvero! - ripeté il Gatto.
- Se siete poveri, ve lo meritate. Ricordatevi del proverbio che dice:
"I quattrini rubati non fanno mai frutto". Addio, mascherine!
- Abbi compassione di noi!...
- Di noi!
- Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: "La farina
del diavolo va tutta in crusca".
- Non ci abbandonare!
- ...are! - ripeté il Gatto.
- Addio, mascherine! Ricordatevi del proverbio che dice: "Chi ruba
il mantello al suo prossimo, per il solito muore senza camicia".
-
E cosí dicendo, Pinocchio e Geppetto seguitarono tranquillamente per
la loro strada: finché, fatti altri cento passi, videro in fondo a una
viottola, in mezzo ai campi, una bella capanna tutta di paglia, e col
tetto coperto d'embrici e di mattoni.
- Quella capanna dev'essere abitata da qualcuno - disse Pinocchio. -Andiamo
là, e bussiamo. -
Difatti andarono, e bussarono alla porta.
- Chi è? - disse una vocina di dentro.
- Siamo un povero babbo e un povero figliuolo, senza pane e senza tetto
-rispose il burattino.
- Girate la chiave, e la porta si aprirà - disse la solita vocina.
Pinocchio girò la chiave, e la porta si aprí. Appena entrati dentro,
guardarono di qua, guardarono di là, e non videro nessuno.
- O il padrone della capanna dov'è? - disse Pinocchio maravigliato.
- Eccomi quassú! -
Babbo e figliuolo si voltarono subito verso il soffitto, e videro sopra
un travicello il Grillo-parlante.
- Oh! mio caro Grillino - disse Pinocchio salutandolo garbatamente.
- Ora mi chiami il "Tuo caro Grillino", non è vero? Ma ti
rammenti di quando, per cacciarmi di casa tua, mi tirasti un manico
di martello?...
- Hai ragione, Grillino! Scaccia anche me... tira anche a me un manico
di martello: ma abbi pietà del mio povero babbo...
- Io avrò pietà del babbo e anche del figliuolo: ma ho voluto rammentarti
il brutto garbo ricevuto, per insegnarti che in questo mondo, quando
si può, bisogna mostrarsi cortesi con tutti, se vogliamo esser ricambiati
con pari cortesia nei giorni del bisogno.
- Hai ragione, Grillino, hai ragione da vendere e io terrò a mente la
lezione che mi hai data. Ma mi dici come hai fatto a comprarti questa
bella capanna?
- Questa capanna mi è stata regalata jeri da una graziosa capra, che
aveva la lana d'un bellissimo colore turchino.
- E la capra dov'è andata? - domandò Pinocchio, con vivissima curiosità.
- Non lo so.
- E quando ritornerà?...
- Non ritornerà mai. Ieri è partita tutta afflitta, e, belando, pareva
che dicesse: - "Povero Pinocchio... oramai non lo rivedrò piú...
il Pesce-cane a quest'ora l'avrà bell'e divorato!..."
- Ha detto proprio cosí?... Dunque era lei!... era lei!... era la mia
cara Fati- na!... - cominciò a urlare Pinocchio, singhiozzando e piangendo
dirottamente.
Quand'ebbe pianto ben bene, si rasciugò gli occhi e, preparato un buon
lettino di paglia, vi distese sopra il vecchio Geppetto. Poi domandò
al Grillo-parlante:
- Dimmi, Grillino: dove potrei trovare un bicchiere di latte per il
mio povero babbo?
- Tre campi distante di qui c'è l'ortolano Giangio, che tiene le mucche.
Va' da lui e troverai il latte che cerchi. -
Pinocchio andò di corsa a casa dell'ortolano Giangio: ma l'ortolano
gli disse:
- Quanto ne vuoi del latte?
- Ne voglio un bicchiere pieno.
- Un bicchiere di latte costa un soldo. Comincia intanto a darmi un
soldo.
- Non ho nemmeno un centesimo - rispose Pinocchio tutto mortificato
e dolente.
- Male, burattino mio - replicò l'ortolano. - Se tu non hai nemmeno
un centesimo, io non ho nemmeno un dito di latte.
- Pazienza! - disse Pinocchio, e fece l'atto di andarsene.
- Aspetta un po' - disse Giangio. - Fra te e me ci possiamo accomodare.
Vuoi adattarti a girare il bindolo?
- Che cos'è il bindolo?
- Gli è quell'ordigno di legno, che serve a tirar su l'acqua dalla cisterna
per annaffiare gli ortaggi.
- Mi proverò...
- Dunque, tirami su cento secchie d'acqua, e io ti regalerò in compenso
un bicchiere di latte.
- Sta bene. -
Giangio condusse il burattino nell'orto e gl'insegnò la maniera di girare
il bindolo. Pinocchio si pose subito al lavoro; ma prima di aver tirato
su le cento secchie d'acqua, era tutto grondante di sudore dalla testa
ai piedi. Una fatica a quel modo non l'aveva durata mai.
- Finora questa fatica di girare il bindolo - disse l'ortolano - l'ho
fatta fare al mio ciuchino: ma oggi quel povero animale è in fin di
vita.
- Mi menate a vederlo? - disse Pinocchio.
- Volentieri. -
Appena che Pinocchio fu entrato nella stalla vide un bel ciuchino disteso
sulla paglia, rifinito dalla fame e dal troppo lavoro. Quando l'ebbe
guardato fisso fisso, disse dentro di sé, turbandosi:
- Eppure quel ciuchino lo conosco! Non mi è fisonomia nuova! -
E chinatosi fino a lui, gli domandò in dialetto asinino:
- Chi sei? -
A questa domanda, il ciuchino aprí gli occhi moribondi, e rispose balbettando
nel medesimo dialetto:
- Sono Lu...ci...gno...lo... -
E dopo richiuse gli occhi e spirò.
- Oh! povero Lucignolo! - disse Pinocchio a mezza voce: e presa una
manciata di paglia, si rasciugò una lacrima che gli colava giú per il
viso.
- Ti commuovi tanto per un asino che non ti costa nulla? - disse l'ortolano.
- Che cosa dovrei far io che lo comprai a quattrini contanti?
- Vi dirò... era un mio amico!...
- Tuo amico?
- Un mio compagno di scuola!...
- Come?! - urlò Giangio dando in una gran risata. - Come?! avevi dei
somari per compagni di scuola?... Figuriamoci i begli studi che devi
aver fatto!... -
Il burattino, sentendosi mortificato da quelle parole, non rispose:
ma prese il suo bicchiere di latte quasi caldo, e se ne tornò alla capanna.
E da quel giorno in poi, continuò piú di cinque mesi a levarsi ogni
mattina, prima dell'alba, per andare a girare il bindolo, e guadagnare
cosí quel bicchiere di latte, che faceva tanto bene alla salute cagionosa
del suo babbo. Né si contentò di questo: perché a tempo avanzato, imparò
a fabbricare anche i canestri e i panieri di giunco: e coi quattrini
che ne ricavava, provvedeva con moltissimo giudizio a tutte le spese
giornaliere. Fra le altre cose, costruí da sé stesso un elegante carrettino
per condurre a spasso il suo babbo nelle belle giornate, e per fargli
prendere una boccata d'aria.
Nelle veglie poi della sera, si esercitava a leggere e a scrivere. Aveva
comprato nel vicino paese per pochi centesimi un grosso libro, al quale
mancavano il frontespizio e l'indice, e con quello faceva la sua lettura.
Quanto allo scrivere, si serviva di un fuscello temperato a uso penna;
e non avendo né calamajo né inchiostro, lo intingeva in una boccettina
ripiena di sugo di more e di ciliege.
Fatto sta, che con la sua buona volontà d'ingegnarsi, di lavorare e
di tirarsi avanti, non solo era riuscito a mantenere quasi agiatamente
il suo genitore sempre malaticcio, ma per di piú aveva potuto mettere
da parte anche quaranta soldi per comprarsi un vestitino nuovo.
Una mattina disse a suo padre:
- Vado qui al mercato vicino, a comprarmi una giacchettina, un berrettino
e un pajo di scarpe. Quando tornerò a casa - soggiunse ridendo - sarò
vestito cosí bene, che mi scambierete per un gran signore. -
E uscito di casa, cominciò a correre tutto allegro e contento. Quando
a un tratto sentí chiamarsi per nome: e voltandosi, vide una bella lumaca
che sbucava fuori dalla siepe.
- Non mi riconosci? - disse la Lumaca.
- Mi pare e non mi pare...
- Non ti ricordi di quella Lumaca, che stava per cameriera con la Fata
dai capelli turchini? non ti rammenti di quella volta, quando scesi
a farti lume e che tu rimanesti con un piede confitto nell'uscio di
casa?
- Mi rammento di tutto - gridò Pinocchio. - Rispondimi subito, Lumachina
bella: dove hai lasciato la mia buona Fata? che fa? mi ha perdonato?
si ricorda sempre di me? mi vuol sempre bene? è molto lontana di qui?
potrei andare a trovarla? -
A tutte queste domande, fatte precipitosamente e senza ripigliar fiato,
la Lumaca rispose con la sua solita flemma.
- Pinocchio mio! La povera Fata giace in un fondo di letto allo spedale!...
- Allo spedale?...
- Pur troppo. Colpita da mille disgrazie, si è gravemente ammalata,
e non ha piú da comprarsi un boccon di pane.
- Davvero?... Oh! che gran dolore che mi hai dato! Oh! povera Fatina!
povera Fatina! povera Fatina!... Se avessi un milione, correrei a portarglielo...
Ma io non ho che quaranta soldi... eccoli qui: andavo giusto a comprarmi
un vestito nuovo. Prendili, Lumaca, e va' a portarli subito alla mia
buona Fata.
- E il tuo vestito nuovo?...
- Che m'importa del vestito nuovo? Venderei anche questi cenci che ho
addosso, per poterla ajutare! Va', Lumaca, e spicciati: e fra due giorni
ritorna qui, ché spero di poterti dare qualche altro soldo. Finora ho
lavorato per mantenere il mio babbo: da oggi in là, lavorerò cinque
ore di piú per mantenere anche la mia buona mamma. Addio, Lumaca, e
fra due giorni ti aspetto. -
La Lumaca, contro il suo costume, cominciò a correre come una lucertola
nei grandi solleoni d'agosto.
Quando Pinocchio tornò a casa, il suo babbo gli domandò:
- E il vestito nuovo?
- Non m'è stato possibile di trovarne uno che mi tornasse bene. Pazienza!...
Lo comprerò un'altra volta. -
Quella sera Pinocchio, invece di vegliare fino alle dieci, vegliò fino
alla mezzanotte sonata: e invece di far otto canestri di giunco, ne
fece sedici.
Poi andò a letto e si addormentò. E nel dormire, gli parve di vedere
in sogno la Fata, tutta bella e sorridente, la quale, dopo avergli dato
un bacio, gli disse cosí:
- "Bravo Pinocchio! In grazia del tuo buon cuore, io ti perdono
tutte le monellerie che hai fatto fino a oggi. I ragazzi che assistono
amorosamente i propri genitori nelle loro miserie e nelle loro infermità,
meritano sempre gran lode e grande affetto, anche se non possono esser
citati come modelli d'ubbidienza e di buona condotta. Metti giudizio
per l'avvenire, e sarai felice". -
A questo punto il sogno finí, e Pinocchio si svegliò con tanto d'occhi
spalancati.
Ora immaginatevi voi quale fu la sua meraviglia quando, svegliandosi,
si accòrse che non era piú un burattino di legno: ma che era diventato,
invece, un ragazzo come tutti gli altri. Dètte un'occhiata all'intorno
e invece delle solite pareti di paglia della capanna, vide una bella
camerina ammobiliata e agghindata con una semplicità quasi elegante.
Saltando giú dal letto, trovò preparato un bel vestiario nuovo, un berretto
nuovo e un pajo di stivaletti di pelle, che gli tornavano una vera pittura.
Appena si fu vestito, gli venne fatto naturalmente di mettere le mani
nelle tasche e tirò fuori un piccolo portamonete d'avorio, sul quale
erano scritte queste parole: "La Fata dai capelli turchini restituisce
al suo caro Pinocchio i quaranta soldi e lo ringrazia tanto del suo
buon cuore". Aperto il portafoglio, invece dei soldi di rame, vi
luccicavano quaranta zecchini d'oro, tutti nuovi di zecca.
Dopo andò a guardarsi allo specchio, e gli parve d'essere un altro.
Non vide piú riflessa la solita immagine della marionetta di legno,
ma vide l'immagine vispa e intelligente di un bel fanciullo coi capelli
castagni, cogli occhi celesti e con un'aria allegra e festosa come una
pasqua di rose.
In mezzo a tutte queste meraviglie, che si succedevano le une alle altre,
Pinocchio non sapeva piú nemmeno lui se era desto davvero o se sognava
sempre a occhi aperti.
- E il mio babbo dov'è? - gridò tutt'a un tratto: ed entrato nella stanza
accanto trovò il vecchio Geppetto sano, arzillo e di buon umore, come
una volta, il quale, avendo ripreso subito la sua professione d'intagliatore,
stava appunto disegnando una bellissima cornice ricca di fogliami, di
fiori e di testine di diversi animali.
- Levatemi una curiosità, babbino: ma come si spiega tutto questo cambiamento
improvviso? - gli domandò Pinocchio saltandogli al collo e coprendolo
di baci.
- Questo improvviso cambiamento in casa nostra è tutto merito tuo -
disse Geppetto.
- Perché merito mio?...
- Perché quando i ragazzi, di cattivi diventano buoni, hanno la virtú
di far prendere un aspetto nuovo e sorridente anche all'interno delle
loro famiglie.
- E il vecchio Pinocchio di legno dove si sarà nascosto?
- Eccolo là - rispose Geppetto: e gli accennò un grosso burattino appoggiato
a una seggiola, col capo girato sur una parte, con le braccia ciondoloni
e con le gambe incrocicchiate e ripiegate a mezzo, da parere un miracolo
se stava ritto.
Pinocchio si voltò a guardarlo; e dopo che l'ebbe guardato un poco,
disse dentro di sé con grandissima compiacenza:
- Com'ero buffo, quand'ero un burattino! e come ora son contento di
esser diventato un ragazzino perbene!... -
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Fine
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